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Marcello Flores: «La destra vuol far suo il “Giorno del ricordo” delle Foibe ma non è una storia sua»

In questa intervista, lo storico ci racconta la genesi degli eccidi istriani, i sensi di colpa dei comunisti italiani e perché è una tragedia più complessa di come la racconta la destra

Marcello Flores: «La destra vuol far suo il “Giorno del ricordo” delle Foibe ma non è una storia sua»
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10 Febbraio 2021 - 09.51


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di Marcello Cecconi

Il Giorno del ricordo, il 10 febbraio, è stato istituito al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Solo dal 2004 si è iniziato a farne memoria ufficialmente condivisa dagli italiani che, proprio per la complessità, continua a sollevare polemiche. Di tutto questo chiediamo spiegazione a Marcello Flores, lo studioso di storia contemporanea autore di approfonditi testi sul XX secolo e sui genocidi, docente all’università di Siena.

Ci può sintetizzare cosa sono le stragi delle Foibe e il successivo esodo?

Bisogna distinguere fra i due periodi delle Foibe: il primo è quello istriano del settembre-ottobre 1943 con 500-700 vittime, il secondo del maggio 1945 che invece, dalle ultime stime, ha circa 3000 vittime. Il primo caso è dovuto a un’insurrezione di breve durata prima che i tedeschi rioccupassero tutto il litorale adriatico. Un’insurrezione in gran parte spontanea, con vendette sommarie non solo nei confronti dei responsabili fascisti del regime di occupazione ma anche di possidenti, proprietari terrieri e altri italiani che venivano identificati come oppressori. Nel secondo caso si tratta invece di violenza organizzata del nuovo potere yugoslavo, costretto poi a ritirarsi da Trieste e zone vicine, che cercava di imporre la sua “giustizia” rivoluzionaria soprattutto a chi era stato fascista ma anche a chi non accettava questa rivoluzione. Addirittura anche antifascisti considerati borghesi e quindi non adeguati al nuovo regime socialista.

Perché le ricerche degli storici sono così divergenti sul numero delle persone infoibate?

Bisogna capire su quali basi si fanno queste stime, se sulle persone ufficialmente date per morte dall’autorità e gettate nelle foibe oppure sui corpi recuperati dalle foibe stesse nei periodi successivi. Sul numero delle vittime, ormai, dopo dibattiti che durano da anni mi pare di poter dire che c’è discreta unanimità.

Eppure anche l’esodo dei 250.000 fu un evento drammatico accresciuto dalle difficoltà di accoglienza in una patria ancora con ferite politiche aperte. Ma il silenzio coprì tutto, perché è tornato a notorietà solo dopo lo sgretolamento della “Cortina di ferro”?

Non è corretto porre sullo stesso piano, e neanche accostare, le stragi delle Foibe con l’esodo. Quest’ultimo fu un momento successivo, anche se non troppo distante nel tempo, con natura completamente diversa. L’esodo fu “formalmente e ufficialmente” volontario da parte delle popolazioni della minoranza italiana in Croazia che la pressione, in parte anche le minacce, della propaganda del nuovo Stato socialista yugoslavo metteva in campo affinché se ne andassero. È questa, sicuramente, una grande violenza ma non segue la stessa logica delle foibe. È vero, questo sì, che la gente che arrivava in Italia, spesso, fu accolta in malo modo soprattutto da parte della propaganda comunista che vedeva in loro nemici del socialismo e, se non adatti al socialismo, presumibilmente fascisti. Ci saranno assalti ai treni che li trasportavano in molte città della Toscana e dell’Emilia, con manifestazioni ostili vissute molto ideologicamente all’interno del clima della guerra fredda. Infatti non è un caso che il fenomeno si potrà riaffrontare e analizzare complessivamente e con più disincanto, dal punto di vista storico, solo dopo il crollo della “Cortina di ferro”. 

Il “Giorno del ricordo” è stato indetto durante il secondo governo Berlusconi con i Ds (ex Pci) che senza opporsi cercarono di mitigarne il senso dell’introduzione con accuse di giustificazionismo, quando non di negazionismo, da parte della destra che premeva. Secondo lei c’era e c’è ancora ritrosia, o addirittura qualche senso di colpa, da parte della sinistra italiana nell’approcciarsi a questo problema?

Si, certo che c’è. Ora è molto attenuato ma allora c’era ritrosia perché la sinistra, ma in particolare i comunisti, non avevano mai voluto affrontare pubblicamente il tema. Io ho insegnato all’Università di Trieste dal 1975 al 1992 e posso ben ricordare che delle foibe e dell’esodo se ne discuteva dal punto di vista scientifico in modo ampio e con ricerche i cui risultati si pubblicavano nelle riviste scientifiche. Si diceva però che non dovevamo parlarne in pubblico per non fare un servizio al neofascismo che sulle foibe, a Trieste, giocava gran parte della propria identità. Quindi sicuramente c’era il senso di colpa nell’accettare il “Giorno del ricordo” e riconoscere così in ritardo l’esistenza di quella tragedia collettiva.

Il 10 febbraio sta diventando “memoria” di proprietà della destra?

Io distinguerei. Sicuramente la destra cerca di farne una propria giornata, e in parte ci riesce soprattutto tramite i social, ma nelle scuole, dove questa giornata viene affrontata da insegnanti in modo serio e approfondito, diventa invece un’ottima occasione per far capire bene la complessità delle vicende del confine orientale. Ecco, per questo, non darei troppo importanza alla polemica propagandistica della destra visto che ormai la conoscenza di quello che è accaduto è molto più diffusa, grazie anche a questa giornata.

Che responsabilità ha la scuola nel ritardare a storicizzare questo periodo lasciando ai media, compreso il cinema, le semplicistiche e talvolta improbabili narrazioni che fanno leva sull’emotività anziché sulla ragione di tutti ma in particolare delle nuove generazioni?   

Il problema è che non si può fare “storia” solo nella Giornata della memoria, la storia va fatta in continuazione e, nella nostra scuola, il Novecento contemporaneo viene trattato poco e male lasciando solo a queste giornate la trattazione e con prevalenza di testimonianze di sopravvissuti o parenti delle vittime. In questo modo si perde il valore vero di quello che è l’insegnamento complessivo della storia.

Più di settant’anni dagli eventi non sono sufficienti a fare analisi storica senza pregiudizi?

Ne sarebbero sufficienti molti meno, purtroppo però su questi temi sono stati settant’anni di rimozioni, falsità, sensi di colpa che hanno ancora oggi un loro peso tanto da scatenare polemiche alle quali assistiamo. Potremmo invece affrontare in modo serio il tema perché quello che conosciamo non è tutto ma quasi e, invece, questi temi si lasciano alla logica dei social con la sola possibilità di dire che siamo a favore o contro, chi sono i buoni e chi i cattivi. Non deve essere una “storia giustiziera” come diceva Benedetto Croce, ma una storia che fa comprendere quello che è avvenuto.

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