Stefano Miliani
«Macerata è candidata a Capitale italiana della Cultura 2020 e a breve si conoscerà il verdetto. A questo punto tifo per questa città, perché proprio mentre viene segnata da mani violente, ha un’opportunità straordinaria: dimostrare che forse più di ogni altra cosa è con la Cultura che si possono cancellare le pagine nere scritte dall’uomo nella storia». Lo scrive il signor Alex Prato di Piacenza in una lettera al Corriere della Sera che prende di petto una domanda: la città marchigiana è diventata l’epicentro di una scossa politica e culturale dalla risonanza mondiale (e i cittadini purtroppo sanno bene cosa sono anche le scosse telluriche) ed è al tempo stesso una delle dieci finaliste al titolo di capitale della cultura. Il comitato maceratese ieri, lunedì 5, è andato in audizione al Ministero dei beni e attività culturali e del turismo, dopo molte e comprensibili incertezze se rinviare l’audizione dopo la tentata strage di africani del neonazista che si era candidato nella Lega. «Abbiamo valutato che bisogna resistere e proprio perché sono giorni tristi bisogna dire che solo con cultura riconnettiamo il territorio», afferma Stefania Monteverde: vice sindaco e assessore alla cultura nella giunta guidata dal sindaco Pd Romano Carancini, con il Comune che coordina il progetto per la candidatura, parla a Globalist appena scesa dal treno da Roma in tarda serata.
Assessore, partiamo dalla lettera al Corsera del signor Prato.
È in sostanza l’incipit della presentazione del nostro progetto. Potevamo rinviare l’audizione. Sono giorni tristi per la città e ci siamo detti che lo dobbiamo alla città. Adesso sanno tutti dov’è Macerata però questa narrazione della città e del territorio e della marca maceratese non ci rappresenta. È un territorio dalla storia culturale ricchissima, ha dinamiche creative e tanto imprese culturali.
In città, e in realtà in tutta Italia, tanti dicono: sì, Traini ha sbagliato, però… Quel “però” sospeso rivela un giustificazionismo ideologico e culturale avallato da fronti politici precisi. La cultura può incidere su questo tessuto?
La cultura ricostruisce i tessuti, la comprensione delle cose, le riconnette attraverso le arti, il pensiero, la riflessione. Abbiamo bisogno di momenti per riflettere. Il dramma è la radicalizzazione del pensiero ridotto a slogan feroci e facili da comprendere. Questi ragazzi vengono schiacciati da un pensiero così banalizzato. Macerata “capitale della cultura” è il modo per dire al mondo: guarda che il racconto è un altro, non sono gli slogan facili.
Come vive e valuta quanto accaduto?
È una violenza inaudita alla quale non siamo preparati che è frutto di un tempo e di un linguaggio, non di un territorio. Sono contraria alla lettura che se ne dà, della provincia come luogo di incubazione. Sono tempi difficili e devo dire che anche vari mass media contribuiscono a questo clima. Basta guardarsi intorno. Io sono anche insegnante e vedo tutte le mattine cosa raccontano gli studenti: è quanto viene banalizzato dalla locandina del giornale (una pagina davanti alle edicole con i titoli principali della giornata, ndr) letta sulla strada, dal post. Occorre ricostruire e riconnettere i fili e credo che la città come capitale della cultura possa farlo, è necessaria.
A Nuoro una donna è stata massacrata di botte dal suo uomo e lancia un appello: “Aiutatemi”. Finché le donne vengono uccise dagli italiani bianchi, ai maschi italiani bianchi e a Salvini non suscitano un’indignazione e rabbia neanche paragonabili al caso di Macerata. Non è un fatto anche culturale?
È quello che dicevo prima. L’attacco è un segno dei tempi. Si interpreta la violenza in base a una convenienza, perché emerge uno su un altro. La violenza su una donna è, gravissima però per chi lo è? C’è una chiave di lettura che strumentalizza i fatti in base a un utile: si cerca il sensazionalismo per raccontare la storia di un paese come occupato dai migranti, e dunque non siamo attenti a raccontare storia di violenza, di disagio sociale, di droga che si diffonde e, per favore, non parliamo di provincia. Il paese ha bisogno di regole per tutti senza guardare al colore della pelle.
Quali sono i cardini del vostro progetto?
Il titolo è “Macerata ESTro.Versa 2020” in opposizione a una visione che la vuole introversa e impaurita. La città guarda a est, all’Adriatico, a Oriente perché ce lo hanno insegnato maceratesi come Padre Matteo Ricci (1552-1610) e poi Giuseppe Tucci (1894-1984). Sono orientalisti che hanno cercato l’amicizia da un altro punto di vista. Noi abbiamo rapporti culturali con la Cina, abbiamo la Via della seta come progetto culturale, abbiamo già un legame con Taicang, città vicina a Shanghai: ogni anno scambiamo studenti, a settembre partono 50 nostri ragazzi, ieri ne avevamo 25 di Taicang da noi. Il secondo punto è che da qui al 2020 possiamo mettere in campo imprese culturali e creative per costruire lavoro, sempre meno stabile anche nel mondo cultura. L’obiettivo è creare una filiera della formazione per trovare lavoro, impresa, turismo. Abbiamo poi coniato un neologismo per il terzo punto: “roversa”.
Cosa vuol dire?
Si gioca sulla parola che rotola. Puntiamo alla ricostruzione di un territorio che cambia, toccato anche dal terremoto del 2016. Per noi è un’occasione per stimolare un cambiamento vero, anche attraverso convegni e confronti internazionali, quindi per suscitare una riflessione su una nuova ecologia, su un sistema sostenibile, su nuovi modelli urbanistici per ripensare il territorio e il rapporto natura-architettura in termini diversi.
Cosa c’è nel vostro dossier per la candidatura?
Nel dossier abbiamo raccolto idee da 180 operatori culturali in città, non dal guru di turno venuto da fuori. Hanno fatto le loro proposte. Siamo convinti che il nostro sia un laboratorio che si apre: è la strada per ricucire queste ferite che fanno tanto paura e da cui speriamo di uscire. Siamo finiti sul New York Times con titoli come “Macerata città violenta”.
Quanto avvenuto in città non è il sintomo o un campanello d’allarme su un clima che ricorda passaggi della Storia sfociati nel fascismo?
Chi sa cos’era la Repubblica di Weimar prima dell’avvento del nazismo e cos’era l’Italia prima del ’19 sa che bisogna stare attenti a pensieri che si radicalizzano e poi generano follia. La follia è la conseguenza sociale e il problema è il pensiero e quindi la responsabilità politica e anche mediatica è altissima, c’è una responsabilità morale, come diceva Pasolini.