di Marcello Cecconi
È trascorso un secolo da quando Adolf Hitler uscì dal carcere. Il 20 dicembre 1924 lasciò la fortezza di Landsberg in Baviera poiché la sua pena di cinque anni, per il tentato colpo di stato iniziato nella birreria a sud di Monaco, era stata appena commutata in nove mesi. All’interno di quella fortezza il futuro Fuhrer aveva quasi completato Mein Kampf, un compendio di semplici e coordinate idee che vanno a costituire un complesso ideologico coerente al quale Hitler è restato fedele sino alla morte. A cento anni di distanza e a settanta dalla Shoah, alcune di queste idee sembrano tornare di moda.
Ne parliamo con Marcello Flores, studioso di storia contemporanea e autore di approfonditi testi sul XX secolo e sui genocidi.
Perché dopo la Prima guerra mondiale la Repubblica di Weimar ha resistito a Hitler fino al 1933 mentre il Regno d’Italia ha ceduto a Mussolini un decennio prima?
La Repubblica di Weimar ha rappresentato un grande successo di democrazia non solo perché vi partecipavano tutti i partiti di massa compresi i partiti centrali e in qualche modo anche la socialdemocrazia, ma anche perché aveva una Costituzione forte e articolata. Tutto questo permetteva alla democrazia di sopravvivere anche se con quei limiti che saranno messi in evidenza proprio nei momenti in cui le forze nazionaliste, e in particolare quelle nazionalsocialiste di Hitler, la metteranno in difficoltà. In Italia, invece, avevamo un regno che era una democrazia monca che nel corso della guerra si era ancor più indebolita perché la maggioranza dei partiti e dei parlamentari non la volevano. Questo il motivo per il quale questi partiti, alla fine della guerra, erano ancora più deboli e il partito socialista che vinse le elezioni era proprio quello che maggiormente si era opposto all’ingresso in guerra. Ci sarà una frammentazione e debolezza dei partiti politici tale da favorire la spinta estremamente coerente da parte di Mussolini con l’utilizzo della violenza a regolare le tensioni sociali. Quest’ultimo obiettivo del fascismo porterà anche i partiti conservatori a vedere con favore le azioni di violenza reputate utili a sconfiggere la minaccia rivoluzionaria, una minaccia in realtà più ipotetica che concreta.
Hitler, quando uscì di prigione il 20 dicembre 1924, aveva quasi completato Mein Kampf. Cosa ha rappresentato questo libro per lui stesso, per la Germania e per il mondo?
Per il mondo, quando uscì, rappresentò solo il punto di vista e una specie di vademecum per il futuro e per il passato di sé stesso e del proprio gruppo. Quando invece Hitler prenderà il potere, Mein Kampf diventerà quasi una ‘bibbia’ necessaria e universale per tutti i nazisti e successivamente per tutti i cittadini tedeschi quando Hitler decise di regalare il suo libro a tutte le coppie che si sposavano.
C’è niente del fascismo italiano e della marcia su Roma di Mussolini a ispirare il libro e il programma di Hitler?
Hitler ha sempre mantenuto una profonda ammirazione per Mussolini e per le sue gesta. La marcia su Roma gli fa capire la necessità, non esplicitata nel suo libro ma messa in pratica poi nell’ azione, di quanto sia importante tenere insieme l’attività illegale come la violenza e l’attività legale come l’azione parlamentare.
Dopo tanti passaggi della storia e i suoi corsi e ricorsi, oggi si ritorna a respirare aria contro i diversi in tutta Europa. Che succede? Sta arrivando un nuovo nazionalsocialismo?
No, non credo nella ripetizione della stessa logica di allora. Oggi esiste una tendenza a criminalizzare gruppi di “diversi” che non sono omogenei come lo erano i gruppi razziali degli anni Venti o Trenta. Quelli attuali sono tempi in cui questi gruppi sono discriminati, uno dopo l’altro, a seconda delle occasioni. Questa logica però permette di favorire il rilancio di una sorta di dittatura della maggioranza che fa passare l’idea che chi ha la maggioranza possa far quello che vuole con le minoranze. Ecco, questo è l’aspetto che la differenzia dai fascismi e nazionalsocialismi storici ma che però ne mutua alcuni aspetti come quello di non accettare pienamente la democrazia.
Che differenza c’è fra l’antiebraismo di Hitler e quello che oggi sta prendendo campo?
Quello di Hitler era un antisemitismo totale che attribuiva alla natura stessa della razza tutti i fallimenti della Germania e, da qui, la necessità di sradicarla totalmente, prima dal suo Paese e poi da tutta l’Europa. Oggi l’antisemitismo è una sorta di proseguimento quasi automatico di un atteggiamento che mischia antisemitismo di tipo nazista e quello, più datato, di tipo giudaico-cattolico. Quest’ultimo individua nell’ebreo una specie di capro espiatorio responsabile di tutte le colpe – che pure l’attuale governo di Israele ne ha – mostrano come una parte della popolazione abbia in profondità questo pregiudizio antiebraico non ancora scardinato e distrutto da decenni di didattica della Shoah.
Dietro questi rigurgiti di nazionalismo sovranista, o, come dice lei, di fronte ad “una sorta di dittatura della maggioranza”, c’è da preoccuparsi per la tenuta democratica dell’Europa e dell’Italia in particolare?
Io credo che, pur con tutti i suoi limiti, l’Europa rappresenti oggi una salvaguardia importante. E l’Italia, che è l’unico Paese insieme a Ungheria, con un forte governo che ambirebbe alla dittatura della maggioranza, non può compierla anche e soprattutto grazie alle leggi e ai regolamenti europei. Ovviamente se in futuro anche altri partiti dello stampo di Fratelli d’Italia o dell’ungherese Fidesz arrivassero al potere si giungerebbe a un’Europa nuova che cesserebbe però di essere quella che conosciamo poiché un’Europa di sovranisti sarebbe di fatto un’Europa inesistente. Io credo che la riscossa dei partiti veramente democratici dovrebbe iniziare proprio da un rafforzamento dell’Europa e delle sue istituzioni dal punto di vista politico e non solo da quello economico.