di Margherita Degani
Sono circa le 6.30 del mattino del 7 ottobre scorso quando le sirene antiaeree iniziano a risuonare tra le strade di Gerusalemme e Hamas dichiara l’inizio dell’operazione “Alluvione Al-Aqsa”. Dall’inaspettato attacco è trascorso un mese e si è innescata una spirale sempre più fitta di orrori e sofferenza. Così la parola Terrorismo ricorre continuamente tra le pagine dei giornali, approda nella gran parte dei programmi televisivi e passa di bocca in bocca scuotendo le coscienze del mondo intero a connotare, ancora una volta, la realtà in cui viviamo.
Siamo più portati ad associare il concetto di atto terroristico alla presenza di agenti di origini palestinesi o, più in generale, musulmane. E’ così? Come dovremmo comportarci davanti ai fatti sopra riportati? In quali circostanze e sulla base di quali caratteristiche l’etichetta di terrorista viene attribuita ad un particolare gruppo o soggetto? Tutto dipende dallo sguardo adottato e dal modo con cui si osserva il mondo. In poche parole, sembrerebbe dipendere dal blocco di alleanze tra Stati cui si è soliti appartenere, dalla vicinanza o meno del proprio sistema culturale ad un altro. In realtà non è proprio così, perché la realtà della materia in questione è ben più complessa. Sfuggente come una nebulosa, appunto. Da ciò nasce oggi l’esigenza ancora più forte di definire e classificare un fenomeno dai margini estremamente sfumati. Non a caso, negli ultimi anni, gli studi sul fenomeno del Terrorismo sono andati moltiplicandosi, non facilitati dall’estrema elasticità del valore associato alla parola e da un’enorme sovrapposizione di sinonimi spesso impropri – terrorista, fondamentalista, estremista, integralista, rivoluzionario, indipendentista… studiarlo e definirlo è dunque anche una questione di forme linguistiche.
Partiamo dal tentativo di definire ciò che comunemente si intende per Terrorismo, ovvero un metodo e uno strumento di lotta politica che, per imporsi, fa uso sistematico di atti estremamente violenti – quali attentati e sabotaggi – non solo contro obiettivi specifici, ma anche nei confronti di civili, gente comune, innocenti. L’ultima risoluzione dell’ONU dell’8 ottobre 2004, a tal proposito recita invece : atti criminali, in particolare quelli diretti contro i civili con l’intenzione di causare la morte o gravi ferite, la presa di ostaggi con lo scopo di seminare il terrore fra la popolazione, gruppi di persone o privati cittadini, intimidire una popolazione o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere un’azione o astenersi dal farlo, e che, come tali, sono stabiliti e stipulati come infrazioni nei protocolli e nelle convenzioni internazionali . Interessante anche l’attenzione che Schmidt pone sullo stato di paura cronico che si vuole indurre nel gruppo oggetto di violenza, che crea a sua volta un pubblico di spettatori, spesso più ampio del gruppo stesso, immobilizzato e disorientato, pronto a diventare nuovamente vittima o ponte verso un bersaglio secondario che si mobilita in aiuto del primo. Sembra dirci che gli effetti psicologici diventano, di fatto, più grandi dei risultati puramente fisici. Questa la sostanza di quanto riportato dalla gran parte delle fonti consultabili, che tuttavia risolvono solo il primo dei nodi in questione: il cosa. Per sviscerare l’insieme delle parti che compongono il problema, sarà comodo muoversi dalla storia e dallo sviluppo della parola designata a rappresentarne il concetto.
È noto che il termine terrore trovi le sue origini nel latino terror, impiegato per tradurre l’atto del tremare, successivamente ampliatosi ad indicare, in senso più ampio e generale, uno stato emotivo di forte paura. L’uso continuo ed organizzato di pratiche che inducano questo sentimento è costume politico propagandato già nei tempi antichi, quando Senofonte ed Aristotele ne parlano all’interno delle loro opere; successivamente è Macchiavelli ad insegnarci che i governatori, per conquistare e mantenere saldo il potere, devono usare terrore e paura negli uomini.
E’ solo con la Rivoluzione Francese che la parola assume l’importanza storico-politica che noi ormai le attribuiamo: tempo del terrore. In quel momento si storicizza e problematizza, curiosamente connotandosi proprio a partire dal suo opposto, quindi da quelli che sono considerati i diritti dell’uomo; paradossalmente dalla Grande Révolution nasce tanto la virtù del concetto rivoluzionario dei diritti, quanto il terrore che forse ne fu, per contrasto, fattore scatenante. Qualcuno potrebbe anche domandarsi perché non identificare il Terrorismo con la Rivoluzione. Va tuttavia considerato come il primo sia – lo ripeteremo di nuovo- un metodo, mentre la seconda un processo che non può identificarsi nel puro agire violento, dal momento che include un movimento ed una aspirazione a liberarsi e costruire qualcosa di nuovo. Secondariamente, esiste anche una distinzione abbastanza intuitiva tra il Terrore in quanto azione violenta esercitata dallo Stato ed il Terrorismo che viene invece perpetrata da singoli oppure da organizzazioni.
A queste prime fasi preistorico-moderne, segue quella contemporanea: dalle Brigate Rosse in Italia, alla Rote Armee Fraktion in Germania, dalle destre in America Latina – segnate da torture, privazione dei diritti, colpi di stato, misteriose scomparse. Si pensi ai Freedom Fighters dei contesti africani, dapprima quello algerino e poi gli altri estesi dal Sudan alla costa d’Avorio. Un’ulteriore svolta nell’impiego del Terrorismo è legata al 1968, quando si assiste ad un’intensificazione dell’estremismo nella politica dei Paesi mediorientali; è poi il 1974 l’anno in cui l’ONU attribuisce all’OLP il compito di rappresentare il popolo palestinese, un popolo di Freedom Fighters come lo definì Yasser Arafat, loro leader. Tra gli anni 60 e 70 inoltre, il Terrorismo nazionalista di matrice separatista fa ingresso sulla scena come nuova forma di rivendicazione, all’interno della quale gruppi etnici omogenei reclamano la liberazione dalle Nazioni di cui sono parte.
E’ infine al 2001 che risale forse l’ultima delle pieghe più significative nella storia del fenomeno in questione, con l’abbattimento delle Twin Towers; la guerra diventa ideologica e inizia ad assumere contorni, ma soprattutto terminologie, morali e religiose che attirano la gran parte dell’attenzione mediatica sugli attacchi di natura fondamentalista islamica.
Di nuovo, sarebbe corretto distinguere tra Fondamentalismo, inteso come strenua difesa del nucleo del proprio credo contro la minaccia della modernità, dal Terrorismo. Se non si può negare che il secondo trovi terra fertile e possibili presupposti di sviluppo nel primo dei due, resta sempre il fatto specifico e caratterizzante dell’impiego della violenza, tipico solo del terrorismo. Sono pertanto due concetti affini, sebbene distinti; con alcuni certi puti di contatto, ma anche impossibili da sovrapporre completamente senza ricadere in errori linguistici e, soprattutto, valutativi.
Ai fini di un’analisi esauriente di cosa sia il Terrorismo, credo non risulti secondario notare che, in quanto modalità legata a precise strategie ed atti, dal punto di vista militare venga associato a quei gruppi o a quelle organizzazioni che, da sole, non presentano la disponibilità di una forza regolare ed organizzata (quindi di un esercito, comunemente inteso) in grado di scontrarsi con quella equivalente di altre Potenze statuali. Da cui la necessità di mettere in pratica una guerriglia il più possibile imprevista e scioccante, volta ad alimentare incertezza, panico e dunque debolezza in un avversario altrimenti impraticabile da colpire “in campo aperto”.
Rimane ora un’altra, non meno complessa, domanda. La stessa che ha inaugurato le prime righe di questo articolo: chi dobbiamo identificare come terrorista? Chi è questa entità? E se fosse lo Stato ad applicare le stesse modalità ? Ancora, il partigiano che combatte per il suo Paese è un terrorista? Secondo la teoria di Max Weber lo Stato si configura a partire da due fulcri: uno spazio politicizzato, sottratto alla natura e fondato su vincoli di legge, accanto alla forza legittima, vissuta nei termini di prerogativa e monopolio. In questo modo nasce quella divisione tra Esterno ed Interno che caratterizza i confini e, di conseguenza, le differenti Nazioni. Tanto all’esterno, quanto all’interno lo Stato delegittima chiunque impieghi la violenza – suo monopolio- classificandolo come criminale o terrorista, appunto. L’azione violenta, infatti, anche là dove rivolta ad altri Paesi, in forma di guerra, è in ogni caso decisione unica di politiche inter-statuali. Per quanto riguarda la figura del Partigiano la situazione è diversa, poiché il Diritto Internazionale, a partire dalle convenzioni di Ginevra del 1949, a causa di motivazioni storiche determinate e figlie delle esperienze nate con la IIWW, ha permesso di considerarla un’eccezione. Viene riconosciuto il diritto alla resistenza ed alla difesa del proprio territorio, il solo dentro al quale si combatte.
La complicazione dell’immagina di questo combattente irregolare, se così lo vogliamo identificare, si complica invece nel momento in cui irrompe l’ideologia nel suo conflitto. Non a caso, secondo l’opinione di Schmidt, è con Lenin che ha inizio un atteggiamento di ostilità assoluta e di rottura del legame con la propria terra che aveva caratterizzato il partigiano. Si superano i limiti del contenimento della guerra regolare e della guerra civile condotta per la propria Nazione, spostando l’accento sull’assenza di confini per raggiungere l’obiettivo di una giustizia universale e di un’ideologia universalistica che conquisti tutto il mondo. Una dimensione mondiale e morale, non più territoriale e politica in senso stretto.
Tirando le fila del nostro lungo discorso, possiamo dedurre che il Terrorista è colui che sfida quest’ordine sovrano e che, in quanto tale, non gode più di alcuna copertura giuridica né di alcuna forma di riconoscimento all’interno del contesto statuale. Wilkinson, già nel 1973, riteneva inoltre che un’ulteriore specificità separasse il Terrorismo dalla normale violenza, ovvero la prontezza a giustificare qualunque mezzo ed azione utile al raggiungimento dei propri scopi, indipendentemente dal grado di sofferenza provocato.
E’ un atto punitivo privo di scrupoli, nato all’interno di una logica di scontro tra sistemi e di una visione dicotomica del tipo amico-nemico, che confonde civile e militare, interno ed esterno, stato di pace e stato di guerra. Il Terrorismo, così come il Terrorista, suo agente diretto, è molteplicità e disordine, è qualcosa di informe. Proprio per questo motivo il discioglimento del nodo deve giocarsi sul piano astratto delle forme che si traducono solo successivamente in sostanze politiche e concrete. E quale studio formale sembra essere più adatto all’analisi di quello linguistico, che impieghiamo quotidianamente per tradurre e comunicare tutto il nostro mondo concettuale e materiale? Violenza, Politica, Morale e Lingua: ecco i pilastri irrinunciabili alla comprensione di questo tanto terribile quanto complesso fenomeno.