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Giangiacomo Feltrinelli, libri e dinamite

Mezzo secolo fa moriva durante un tentativo di attentato l'editore che per primo pubblicò "Il dottor Živago" di Boris Pasternak a dispetto del Cremlino e del Pci

Feltrinelli e Fidel Castro
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Marcello Cecconi Modifica articolo

17 Marzo 2022 - 16.20


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Sono trascorsi cinquant’anni da quel 15 marzo del 1972 in cui, sotto un traliccio dell’alta tensione vicino a Segrate, in provincia di Milano, fu rinvenuto il corpo senza vita di un uomo. Quel corpo martoriato era di Giangiacomo Feltrinelli. Un filo elettrico, una torcia, una batteria, un residuo degli occhiali erano accanto a lui. Alcuni candelotti di dinamite erano ancora intatti e legati con un filo di ferro ai pali del traliccio. Era chiaro che voleva far saltare il traliccio ma qualcosa era andato storto. Giangiacomo Feltrinelli, raffinato editore figlio dell’aristocrazia lombarda e intellettuale militante estremista. Una storia particolare che resterebbe di difficile comprensione se non ci gettassimo a capofitto nell’atmosfera politica di allora.

Feltrinelli era nato nel 1926 e, dopo aver simpatizzato per il fascismo, fece dietro front, tanto che nel 1944 entrò nella Resistenza arruolandosi, con il nome di “Osvaldo”, nel Gruppo di Combattimento Legnano in appoggio della Quinta Armata statunitense. Alla fine della guerra fece parte del Psi ma, dopo la crisi e la conseguente scissione di Palazzo Barberini, passò al Pci che per qualche anno sosterrà anche finanziariamente. Da marxista convinto si impegnò nella raccolta di documentazione e di materiali informativi sulla storia del movimento operaio a partire dall’illuminismo francese, dando vita, nel 1951, alla Biblioteca Giangiacomo Feltrinelli che diverrà, in seguito, la Fondazione Feltrinelli.

Ecco cosa scriveva di sé, in quegli anni, in una scheda della scuola regionale del partito: “Un primo elemento importante credo sia stato il seguente: nel ’36 mia madre acquistò un grande giardino al cui riadattamento lavorarono per alcuni anni operai, manovali e contadini. Io divenni ben presto amico di questi operai e manovali e così per la prima volta venni a conoscenza di un altro mondo che non era quello dorato in cui vivevo; dal racconto e dalla discussione imparai a conoscere le condizioni, la vita disagiata che gli operai erano costretti a fare, gli sforzi per mantenere la famiglia, l’insufficienza del loro salario, la costante minaccia della disoccupazione che gravava su ciascuno di loro. Ebbi così la percezione di due categorie sociali differenti e ben distinte. Più tardi, nel ’38-’39, nelle discussioni accanite sugli avvenimenti internazionali la guerra diventava una grave minaccia che si inseriva nella vita già dura che gli operai facevano. Capii che non erano gli studenti, i signori che a gran voce reclamavano il conflitto che sarebbero andati a combattere; che, anzi, chi commerciava aveva la possibilità di guadagnare da una guerra mentre i sacrifici venivano sopportati dagli operai”.

La casa editrice, invece, nascerà nel 1954 quando ormai i rapporti col Pci di Togliatti si stavano raffreddando. L’intuito e la lungimiranza da editore emerse immediatamente con il primo libro edito: L’autobiografia dell’allora Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru. Ma il vero colpo grosso editoriale e lo scontro duro con il Pci arrivò nel 1957 con Il dottor Živago di Boris Pasternak. Quando gli autocrati del Cremlino vennero a sapere che il libro sarebbe stato edito in Italia fecero pressioni sul Pci che tentò, senza successo, di mediare con Feltrinelli. I sovietici non volevano che fosse pubblicato poiché parlava delle sofferenze fisiche e psicologiche subite dal popolo russo dopo la Rivoluzione d’ottobre. Lo stesso Pasternak scrisse a Feltrinelli implorando la restituzione del manoscritto in quanto non terminato ma l’editore gli rispose opponendosi decisamente e aggiungendo che Pasternak un giorno lo avrebbe ringraziato di questa sua decisione.

Feltrinelli, in una trasmissione Rai di Mario Soldati, chiede la settimana corta per i lavoratori per più tempo libero per leggere

Si intensificarono Iniziarono i suoi rapporti con i movimenti di liberazione di molte del mondo. Andò a Cuba dal leader della vittoriosa rivoluzione cubana, Fidel Castro; andò in Bolivia per incontrare il giornalista francese Régis Debray, unito nella lotta a Che Guevara e dove, sospettato di aiutare la guerriglia, assaggerà la prigione boliviana per un paio di giorni. Successivamente, grazie a Castro, avrà la possibilità di pubblicare il Diario in Bolivia di Che Guevara, che il “lider maximo” aveva ricevuto da Salvator Allende, futuro Presidente del Cile.

In Italia, intanto, la rivoluzione studentesca e operaia sessantottina aveva segnato un cambiamento sociale che avrebbe colto i frutti con le conquiste laiche e democratiche degli anni a venire. Ma quando ci sono i grandi scossoni storici, insieme ai prodotti benefici restano anche le scorie. L’idealismo, per molti giovani di allora, giustificava il ricorso alla violenza in nome di una giustizia “proletaria” che avrebbe dovuto affrancare da un apparato istituzionale conservatore che non rifuggiva dalla risposta violenta nelle piazze. In più, per mantenere privilegi e l’amicizia interessata degli Usa, le istituzioni si lasciavano spalleggiare da una parte della società che sognava un ritorno al Ventennio. Sono gli anni della “strategia della tensione”, di Piazza Fontana, di Pinelli e del Commissario Calabresi, del tentato golpe di Junio Valerio Borghese e di Gladio. Gruppi di estrema sinistra contro gruppi di estrema destra. I giornali parlavano di “teoria degli opposti estremismi”, quella che avrebbe portato ai terribili anni di piombo.

Feltrinelli, dunque, viveva questo tempo sdoppiato fra l’imprenditore di successo e l’innamorato della rivoluzione proletaria. Nei giorni che seguirono la strage di Piazza Fontana iniziò a entrare nel mirino delle forze dell’ordine e, dopo i contatti con i primi gruppi armati della sinistra, decise di passare alla clandestinità. Nel 1970 fondava i Gruppi d’Azione Partigiana (Gap), rispolverando il vecchio nome da partigiano “Osvaldo” e prendendo spunto dalla lotta armata delle «avanguardie strategiche rivoluzionarie», attive in Vietnam e in Corea del Nord.

Fu una di queste strategie che lo portò al tentativo fatale di sabotare il traliccio per mettere al buio una parte di Milano, dove erano state progettate incursioni del suo gruppo. Il funerale ci fu dopo due settimane, il 28 marzo.

Così lo raccontò la Stampa del 29 marzo: «Alle 15,40 il feretro viene preso a spalla da sei dipendenti della casa editrice Feltrinelli e portato all’interno del cimitero, nel reparto 2 spazio 177 dove s’erge l’edicola funeraria. Gli agenti devono fare due cordoni per lasciar passare il corteo. Davanti alla cappella c’è già una gran folla in attesa, migliaia e migliaia di giovani che cantano inni rivoluzionari, l’«Internazionale», «Bandiera rossa». Si scandiscono slogans: «Borghesia assassina». «Feltrinelli sarai vendicato». «Feltrinelli è stato assassinato». Mentre il feretro viene calato nella cripta sotterranea della cappella (dove già sono sepolti il padre dell’editore, Carlo, morto suicida nel ’35, e la nonna Maria De Prez. morta nel ’37) parlano Maria Antonietta Maciocchi, ex deputato del Pci, l’editore Wagenbach a nome anche di altri editori stranieri, Debray, Capanna e Scalzone. Viene esaltato sia l’uomo rivoluzionario, sia l’uomo di cultura che «ha reso possibile una presa di contatto con la realtà». Scalzone grida: «Non accettiamo Feltrinelli come vittima, lo salutiamo come combattente comunista rivoluzionario». Alle 16,50 la cerimonia ha termine, Sibilla Melega esce dalla cripta, tutti si avviano verso l’uscita del cimitero e, fuori, la folla si disperde senza esitazioni».

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