Siamo nel 1327 e alcuni cittadini senesi, mossi da sentimenti di pietà e di umanità, hanno presentato una petizione al consiglio generale della loro città. Nelle carceri, scrivono, i detenuti soffrono per il pessimo stato di ambienti fatiscenti. Siamo sotto il palazzo del Comune ma in due anni ne sono morti, là dentro, più di sessanta, come è noto a tutti e confermato da sopralluoghi e perizie di esperti. Si tratta di un omicidio pubblico e crudele. Di più, è un peccato intollerabile agli occhi di Dio.
Poi il colpo finale. Le carceri devono essere luogo di custodia e non di pena dei detenuti: citazione quasi letterale di un passo del giurista Ulpiano che ricordava anche che i detenuti non dovevano mai essere incatenati. Dunque, gli anonimi autori di questa nobile petizione erano esperti di diritto romano che, come un fiume profondo, agiva sulle politiche e sull’azione dei governi e irrompeva nelle nuove raccolte di leggi. Negli stessi anni, nel contesto di una azione politica comunale contro gli usurai che strozzavano i cittadini e a sostegno del ‘buon credito’, veniva abolita la prigione per i debitori per consentire all’indebitato non fraudolento di trovare i modi per risollevarsi e saldare il dovuto.
Si respirava, insomma, un’aria nuova. E forse fu per questo che il governo accolse prontamente la richiesta per le nuove carceri, esaminò le perizie, spese la bellezza di 2.500 fiorini d’oro per acquistare le case da demolire per far posto al nuovo edificio, “le quali case si guastaro per farvi la prigione nuova del comuno”. Anche il cantiere venne aperto tempestivamente, “comincioro una prigione nuova e grande con grande ordine e cercuito”. In capo a tre anni i detenuti furono trasferiti, nottetempo, nella nuova struttura.
Una nuova sensibilità stava crescendo, in mezzo a mille contraddizioni.
Per i luoghi delle esecuzioni si era sempre cercata una forte visibilità, in grado di garantire l’esemplarità della pena e l’ammaestramento dei cittadini, coinvolti emotivamente ed eccitati da quello che Piero Camporesi chiamò il “giuoco crudele del sadismo di massa”. Poi, però, sembra che la gente ne avesse abbastanza di vedere con i propri occhi l’azione della giustizia. Dopo appena tre anni di uso, ad esempio, venivano rimossi dal Campo un “petrone” e una colonna dove “si facea justitia”, alla quale era incatenati i condannati che venivano “scopati”, cioè frustati, e dove era stato necessario costruire una fossa per raccoglierne il sangue. Si cominciavano poi ad allontanare dal centro le esecuzioni che prevedevano la mutilazione – “dimoczicati mani e piei e altri membri” – che, si commentava, costringevano chi frequentava il palazzo o viveva lì vicino a vedere questo spettacolo crudele, magari mentre era seduto a tavola per il pasto.
I problemi non furono definitivamente risolti nemmeno quando le esecuzioni capitali furono spostate fuori dalle mura, dove si pensò di costruire un piccolo locale chiuso a chiave. Il testo del provvedimento parlava di gente inorridita dalla vista degli animali che leccavano il sangue dei condannati sparso a terra (“esso sangue è magnato da le fiere domestiche et selvatiche”). Squassava le coscienze anche il fatto che quel sangue mangiato dagli animali era “conformato col sanctissimoCorpo di Cristo” dato che i condannati a morte si comunicavano la mattina prima dell’esecuzione.
L’orrore pervadeva chi si trovava anche soltanto a udire le urla dei mutilati. Certe monache presentarono una angosciata petizione al Comune chiedendo che venisse trasferito altrove il luogo delle esecuzioni che si trovava vicino al loro monastero e che causava loro “un terrore grandissimo e disturbava le loro orazioni”.
Nella storia, tuttavia, sono poche le cose che si possono cancellare del tutto e, tra attrazione e repulsione, tra esemplarità e riserbo, la zona vicina alle vecchie carceri continuò a portare alcuni segni delle attività di giustizia. Nel 1389 sui muri esterni del palazzo vennero effigiati ventisette congiurati condannati in contumacia. Sotto le loro immagini, che purtroppo non ci sono più, didascalie in rima di 140 versi totali descrivevano un ballo di impiccati. Il macabro riferimento agli spasmi della morte (“per traditore io ballo in questa danza”, “in questo ballo mi so’ ritrovato”, “non è usanza de li contadini/ entrare in balo co’ li citadini”) anticipa ai nostri occhi l’inquietante Ballade des pendus di François Villon o il Bal des pendusdi Arthur Rimbaud.
Se a Siena negli ultimi secoli del Medioevo il rapporto con la pena era andato gradatamente cambiando, forse quel primato che la Toscana vanta nel mondo per aver abolito la pena di morte (30 novembre 1786, per decisione del Granduca Pietro Leopoldo) non fu solo frutto dell’azione di un sovrano illuminato, quanto di un percorso autonomo che aveva creato nelle città toscane un tessuto pronto a recepirne le decisioni.