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Israele e Hamas: nuovi flussi migratori? Una conversazione con Fabio Berti

È possibile che il conflitto in atto tra Hamas e Israele possa produrre nuovi flussi migratori? A rispondere è il professore dell’Università di Siena Fabio Berti.

Israele e Hamas: nuovi flussi migratori? Una conversazione con Fabio Berti
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25 Ottobre 2023 - 17.56


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di Azzurra Arlotto

Il conflitto fra israeliani e palestinesi è antico. Di norma, il passare del tempo placa i rancori ma, in questo caso, non ha fatto atro che inasprirli. “Una terra senza popolo per un popolo senza terra” era uno degli slogan del sionismo, verso la fine del XIX secolo, quando tutto questo ebbe inizio.

A seguito di attentati e massacri che si sono succeduti in questi ultimi giorni, il numero in perdita di vite umane è in continuo aumento e, in base alle previsioni, è destinato ancora a crescere.

Viene da chiedersi, dunque, se per scampare al pericolo e alla morte, le popolazioni sotto attacco inizino a spostarsi in massa, non solo attraversando il medio-oriente o il canale di Suez, ma spingendosi anche oltre il Mediterraneo, dando cosi vita di un nuovo flusso migratorio.

Ne abbiamo parlato con un esperto di processi migratori, Fabio Berti, professore ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena e presidente del comitato per la didattica del corso di laurea magistrale in Sostenibilità sociale e management del welfare dello stesso ateneo.

Secondo lei, quanto è probabile che la guerra in corso tra Hamas e Israele possa produrre nuovi flussi migratori?

Se stiamo ai dati quantitativi, come quelli demografici, non sembra che ci siano rischi di nuove migrazioni di massa in conseguenza della guerra tra Hamas e Israele. La striscia di Gaza ospita poco più di due milioni di persone e rispetto all’entità dei flussi migratori che stiamo vivendo oggi quantitativamente non sono niente. Attualmente il conflitto è circoscritto per cui, per capire cosa potrà accadere in termini di nuove migrazioni, occorre attendere quello che succederà nelle prossime settimane, se ci sarà o meno un allargamento conflitto della guerra e quali altri paesi potranno eventualmente esserne coinvolti. A partire dal 2011, con il conflitto siriano, insieme alle primavere arabe e poi con il ritiro degli americani dall’Afghanistan, abbiamo assistito a nuovi e consistenti flussi migratori ma la situazione attuale mi pare un po’ diversa.

Quali sono i potenziali Paesi che potrebbero accogliere i rifugiati qualora ci fossero?

Anche in questo caso dipende da quello che succederà: da tempo, l’Europa sta lavorando all’esternalizzazione dei controlli e di frontiere anche coinvolgendo Stati cuscinetto, come la Turchia. Nel momento in cui dovessero aumentare i flussi migratori dai paesi del Medio e vicino Oriente è certo che questi nuovi flussi migratori avrebbero tutti come obiettivo quello di arrivare nell’Europa ricca; ma l’Europa ora è molto impegnata nel chiudere le frontiere, basta vedere quello che è successo in questi ultimi giorni a proposito della sospensione del trattato di Schengen in buona parte dei Paesi europei con l’obiettivo di rafforzare i controlli e contenere la possibilità di nuovi ingressi nei Paesi membri. Ragione per cui è probabile che in una situazione ipotetica di nuovi flussi migratori l’Europa ricorra ancora a Paesi terzi, come la Turchia, ma anche la Libia, per contenere i nuovi ingressi, anche a costo di gravi violazioni dei diritti umani.

Dal punto di vista religioso, invece, cosa comporta questa guerra?

È una questione molto seria! Questa nuova guerra tra Hamas e israeliani rinnova il classico, tradizionale e drammatico conflitto tra ebrei e mussulmani. In questo conflitto possiamo chiamare in causa le religioni come conseguenza però di fenomeni del tutto politici: la guerra è prima di tutto una questione politica, anche se poi ne risentono le appartenenze religiose, come nel caso di rinnovati fenomeni di antisemitismo da un lato e di rigurgiti islamofobici dall’altro. Il problema non è la religione in quanto tale bensì il modo in cui singoli o gruppi vivono l’appartenenza religiosa trasformandola in un’occasione di scontri e violenza.

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