di Elena La Verde
Come il povero gabbiano cantato da Gianni Celeste non ha più voglia di volare, perché ha perso la sua compagna (sì, faccio riferimento alla canzone neomelodica “Tu comm’a me” che negli ultimi tempi è diventata molto popolare sui social ndr.), così oggi il povero uccellino di Twitter non cinguetta e non vola più, perché ha perso il suo compagno Elon Musk.
L’imprenditore americano che si era detto pronto ad acquistare il social network per oltre 44 miliardi di dollari, si è poi ritirato dal tavolo delle trattative, lasciando di fatto l’affare incompiuto. Il motivo della rinuncia? Secondo Musk, Twitter non gli avrebbe fornito dati reali, ma avrebbe nascosto e mentito spudoratamente sulla sua reale utenza di base. Il numero di account fake, bot e spam sarebbe superiore al 5% di quanto dichiarato da Twitter. In altre parole, le acque della piattaforma sarebbero inquinate da un insieme di profili spazzatura, il cui valore economico sul mercato è pari alla carta straccia.
Non ci sono prove tangibili sulla veridicità di questo dato, ma il patron di Tesla è convinto delle sue idee e non se ne frega niente. Senza pensarci più di tanto, ha annunciato di rescindere il contratto di acquisizione firmato ad aprile e ha anche accusato il social media di aver agito in malafede. Se per alcuni, ha agito in modo saggio come un qualsiasi uomo di successo farebbe, evitando rischi di perdita, per altri analisti, invece, la sua decisione è stata solo spinta da motivi futili, pretestuosi e inutili.
Intanto, Twitter non ci sta e ha deciso di intentare una causa contro di lui non solo per le accuse ricevute, ma anche per gli accordi venuti meno.
Si apre così un’intricata battaglia legale tra le due parti.
Da un lato, Twitter mira ad avere una sentenza positiva (che Elon Musk rispetti il contratto di acquisizione) nel minor tempo possibile. La sua richiesta di avere un processo rapido ed immediato, della durata di un massimo di cinque giorni, è stata accolta dal tribunale di Delaware Court of Chancery, negli Stati Uniti: l’appuntamento fissato in aula è per il 17 ottobre. Come viene riportato sul New York Times e su altri quotidiani americani, l’obiettivo di Twitter è quello di evitare di far allungare i tempi processuali, perché nel caso si provocherebbero molti danni, essendo l’azienda anche quotata in borsa.
D’altra parte, l’imprenditore americano, tramite i suoi legali, ha controquerelato Twitter, accusandolo di frode, di violazione del contratto e di violazione del Texas Securities Act (è una legge statale relativa alla regolamentazione del settore dei titoli in Texas). Ma non si ferma qui: nei giorni scorsi, ha richiesto una documentazione anche al suo intimo amico Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter e due volte suo amministratore delegato, che però si è dimesso lo scorso novembre, lasciando il suo ruolo all’ingegnere Parag Agrawal. A Dorsey, in qualità di testimone, è stato chiesto di dare una documentazione in merito al numero di account falsi presenti sulla piattaforma e di specificare quali siano le metriche algoritmiche usate dal social media per valorizzare l’attività dei suoi utenti. Le deposizioni di Dorsey si andrebbero ad aggiungere a quelle già richieste a Kayvon Beykpour e Brice Falk, che sono rispettivamente ex manager del prodotto Twitter. Da quest’ultimi, molto probabilmente, Elon Musk si aspetta di ricevere comunicazioni e testimonianze molto solide che possono avvalorare la sua tesi (che Twitter ha occultato la reale quota di bot e account non autentici).
A complicare ulteriormente il quadro sono anche le recentissime e caldissime dichiarazioni di Peter Ztako, l’ex capo della sicurezza di Twitter, rilasciate in un articolo del The Washington Post, che ha fatto molto discutere nelle ultime ore (clicca qui per leggere l’articolo in inglese). In sintesi, Ztako ha inviato un’importante denuncia di 84 pagine alla Sec, l’autorità americana preposta alla vigilanza dei valori in Borsa, al Dipartimento di Giustizia e alla Federal Trade Commission. Nel lungo documento, ha descritto Twitter come un’azienda caotica e senza timone, afflitta da continue lotte intestine ed incapace di proteggere i suoi 238 milioni di utenti giornalieri. Le accuse più gravi, come viene descritto nell’articolo del The Washington Post, sono rivolte all’amministratore delegato Parag Agrawal ed altri dirigenti che con le loro politiche aziendali avrebbero ingannato utenti, investitori e autorità americane comprese: l’utilizzo di software obsoleti e vulnerabili, l’eccessiva presenza di account falsi, i magri sforzi di contrastare lo spam e la mancanza di un piano serio per i problemi di sicurezza sono un insieme di “carenze e negligenze estreme”, tali da poter essere viste come un attentato alla sicurezza nazionale e alla stessa democrazia. E tanti altri sono gli scheletri nell’armadio rivelati, ad esempio la violazione di Twitter sui termini di un accordo di 11 anni fa con la Federal Trade Commission sulla protezione dei dati degli utenti. Per avere un maggiore approfondimento, rinvio ad un’attenta lettura dell’articolo del The Washington Post.
Ora, che le accuse di Peter Ztako siano legittime, non possiamo saperlo. Meglio far discutere gli esperti sulla loro fondatezza.
Il punto del discorso è un altro. La sua denuncia ha sicuramente grandi implicazioni sul processo Musk-Twitter. Senza dubbio, fornisce ai legali dell’imprenditore americano nuove prove da portare e dibattere in aula il 17 ottobre. Al tempo stesso, però, l’aver esposto i problemi di Twitter legati alla cybersicurezza e suoi possibili rischi per la sicurezza interna degli Stati Uniti, fa accendere i riflettori su altri attori sociali.
La questione diventa subito politica.
Quale sarà l’esito di questa tortuosa battaglia legale? Difficile dire chi ne uscirà vincente, anche se non manca la consueta tifoseria. Intanto, la palla è ancora al centro del campo. E la partita è tutta da giocare.