di Elena La Verde
Se è pensiero comune pensare che le GAFAM (acronimo che sta per indicare i grandi colossi big-tech, quali Google, Apple, Facebook, che negli ultimi tempi ha cambiato nome in Meta, Amazon e Microsoft) possano fare qualsiasi cosa, adesso bisognerà ricredersi.
Dopo l’approvazione del Digital Markets Act (DMA) e del Digital Services Act (DSA) da parte del Parlamento Europeo, l’intero scenario potrebbe decisamente cambiare. Le due proposte di legge sono i tasselli con cui l’Unione Europea vuole dare una svolta decisiva alle grandi piattaforme americane, cercando di stabilirne una loro definitiva regolamentazione. Entrambe fanno parte di una strategia digitale rivolta alla costruzione di un futuro digitale europeo autonomo: non è un caso che il titolo sia Shaping Europe’s Digital Future.
Ma procediamo con ordine per ricostruire il loro quadro.
Il Digital Markets Act, che è stato proposto dalla Commissione Europea nel dicembre del 2020, è un insieme di riforme che intendono tutelare la concorrenza nei mercati digitali europei, impedendo alle grandi imprese di monopolizzare il mercato e consentendo ad altri competitors e a nuovi operatori di entrarvi. In altre parole, lo scopo è quello di limitare il grande potere delle piattaforme digitali americane e questo si pone già come un primo passo per favorire la nascita di un’industria tecnologica europea, sebbene ne siamo ancora lontani. Provando a semplificare molto il discorso, la proposta di legge, nello specifico, prende di mira igatekeeper online, che non solo devono assumere particolari responsabilità, ma anche rispettare determinati obblighi poiché, in caso di inottemperanza di quest’ultimi, rischiano di essere sanzionati amministrativamente, con multe che possono incorrere dal 10% fino al 20% del loro fatturato mondiale annuo maturato, se i reati sono ripetuti nel corso del tempo. Sebbene il testo non menzioni esplicitamente le GAFAM, è chiaro che queste siano i principali soggetti chiamati in causa: la maggior parte dei siti che oggi visitiamo appartiene alle Big Five, che da alcuni anni a questa parte, detengono il monopolio e sono alla base dell’ecosistema delle piattaforme. IL DMA è pertanto una soluzione che va ad integrare il quadro normativo già esistente in materia di antitrust e di tutela di libero mercato e di libera concorrenza.
Se da un lato ci sono i mercati, dall’altro ci sono i servizi digitali da disciplinare: da qui, la proposta legislativa del Digital Services Act, che si inserisce all’interno della direttiva sul commercio elettronico del 2000 (direttiva 2000/31/CE), la quale è la normativa di riferimento fondamentale per tutti i servizi digitali. Senza addentrarci nei dettagli giuridici, di cui si rimanda ad una lettura di approfondimento al seguente articolo, pubblicato sulla rivista giuridica online Ius in Itinere (link dell’articolo), il DSA mira a tutelare i consumatori e gli utenti online, imponendo alle grandi aziende della rete maggiori controlli sui contenuti che circolano sulle loro piattaforme, sui servizi digitali che offrono e sugli algoritmi che vengono usati per la profilazione degli utenti: i contenuti illegali, la pubblicità ingannevole e la disinformazione sono gli argomenti chiavi del disegno di legge. In questo modo, le piattaforme sono obbligate a rivelare alle autorità competenti i meccanismi da loro utilizzati per contrastare le fake news e il dilagante fenomeno della disinformazione online, nonché devono rendere noto il funzionamento degli algoritmi da loro integrati per la raccolta dei dati e la conseguente vendita a terze parti; in più, devono proporre una pubblicità trasparente, con termini chiari e condizioni precise e devono rimuovere tutti i contenuti considerati illeciti, qualora lo si richieda. Non sono solo questi, ma anche altri gli obblighi a cui devono attenersi; e se non venissero rispettati? La proposta di legge prevede pesanti sanzioni: queste possono arrivare fino al 6% del loro fatturato globale.
Fintantoché questi disegni di legge diventino effettivamente legge ed entrino in vigore, ne deve ancora passare di tempo: secondo alcuni, il loro iter burocratico dovrebbe concludersientro la fine del 2023, anche se è presto per dirlo. Vedremo.
Una cosa è certa: regolamentare l’ecosistema delle piattaforme non è affatto semplice e non ci troviamo più nella condizione di poter considerare Internet come un protocollo di comunicazione libero e aperto, in cui ognuno poteva avere il proprio spazio virtuale. Lo era negli anni Novanta, trentadue anni fa. Oggi, non più. Perpetuare una concezione “romantica” – e forse utopica – di Internet come uno spazio libero, è decisamente senza senso, fuori ogni luogo e fuori ogni tempo.
Le cose sono cambiate. Oggi, si preferisce giocare diverse partite, in cui sono coinvolti diversi attori, che sono portatori di logiche fin troppo diverse tra loro: ad esempio, le grandi piattaforme americane da un lato, i colossi cinesi dall’altro, le istituzioni nazionali e sovranazionali dei singoli paesi dall’altro lato ancora; e intanto, mentre questi muovono le loro pedine lungo lo scacchiere dei giochi, noi, gli utenti online, siamo gli altri attori che non possono far altro che vedere e aspettare. Almeno, per il momento.