di Rock Reynolds
È un uomo tutto d’un pezzo Michele Giuttari. Poliziotto di lungo corso, ligio servitore dello stato, appassionato autore di noir seguitissimo soprattutto nel Regno Unito. Ma la sua vicenda professionale e umana non è stata semplicissima. Per il grande pubblico, Giuttari è legato soprattutto alle complicate indagini sul Mostro di Firenze, con le quattordici giovani vite da esso spezzate. Ed è proprio indagando sugli efferati delitti avvenuti nei dintorni del capoluogo toscano tra il 1974 e il 1985 che Michele Giuttari ha dovuto mettere a dura prova le sue competenze di investigatore e la sua tempra umana. Come in qualsiasi evento criminoso che nel nostro travagliato paese abbia fatto parlare abbondantemente di sé, le violenze inflitte alle sette coppie di innocenti trucidati e sottoposti a uno scempio post-mortem raccontano una storia che va ben al di là dell’orrore che le ha contraddistinte.
Come tutti sanno, le indagini si concentrarono sulla teoria abbondantemente sconfessata del serial killer solitario. Furono proprio le nuove indagini condotte da Michele Giuttari nella sua veste di capo della Squadra Mobile di Firenze a reindirizzare il caso verso un gruppo di rozzi assassini al soldo di un manipolo di notabili insospettabili, appassionati di messe nere e consessi esoterici violenti, dalla sessualità fortemente deviata. Ma tra quegli insospettabili c’erano figure dai legami oscuri e potenti che riuscirono a gettare discredito sull’intero impianto investigativo.
Dopo aver per anni affidato al suo alter ego letterario, il commissario Michele Ferrara, la verità lungamente cercata e talvolta ostracizzata presso le alte sfere, ora che la sua figura è stata del tutto riabilitata con sentenze inappellabili, Giuttari ha deciso di chiudere il cerchio, scrivendo un libro che mette ordine in una vicenda intricata nella quale si intrecciano errori e orrori, violenze inaudite e atti di coraggio impensabili, crimini inspiegabili e depistaggi plateali. Insomma, non sempre cose alla portata di quei violenti ma tutto sommato umili “compagni di merende”: Pacciani, Vanni e Lotti.
Con I Mostri di Firenze e il patto segreto (Morlacchi, pagg 332, euro 18), Giuttari abbandona, almeno momentaneamente, la narrativa e si fa cronista lucidissimo, senza smettere del tutto i panni del narratore appassionato di suspense. Perché I Mostri di Firenze e il patto segreto si legge come un romanzo e il lettore si troverà proiettato fin dalla prima pagina in una sorta di abisso del male, un universo parallelo che nemmeno a quasi trent’anni dall’ultimo delitto, cessa di attanagliarlo nella morsa spaventosa di un’umanità individuale, mai come allora così vicina al baratro definitivo.
Per qualcuno, Michele Giuttari questo libro lo avrebbe scrivere per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, ma le risposte che ha dato alle nostre domande indicano, ancora una volta, un anelito di verità, più che un’autoreferenziale volontà di mettere la parola fine alla vicenda che più di ogni altra ha segnato la sua vita.
Partiamo dalla fine. Ha qualche autentico rimpianto? Rabbia latente, magari?
Nessun rimpianto perché credo di avere fatto tutto il possibile nel mio ruolo per l’accertamento di una verità che fosse la più completa. E neppure rabbia. Sicuramente una grande amarezza per come la mia collaborazione fu interrotta ingiustamente in una fase importante delle indagini.
Perché a tanti anni dalla chiusura delle indagini c’è ancora chi si ostina a parlare di un serial killer solitario?
Questa storia ha interessato – e continua a interessare ancora oggi – moltissime persone non solo in Italia, esperte e non, le quali cercano di portare avanti questa ipotesi forse nel tentativo, almeno per i più, di poter fornire qualche contributo agli inquirenti. Si tratta, però, di ipotesi formulate senza una conoscenza approfondita del caso, sia di tutte le indagini svolte, ormai note nelle sentenze, sia di quelle non entrate nei processi ma esistenti nei vari fascicoli dei procedimenti di Firenze e di Perugia.
La teoria del serial killer, seguita infruttuosamente per anni e alla fine archiviata dai giudici, non può avere più spazio perché smentita sia dalle sentenze definitive che dai fatti e da elementi oggettivi che la rendono completamente infondata.
Lei scrive che “Nell’indifferenza delle istituzioni e anche della stampa… si consumò un uso distorto della giustizia che non fa onore al nostro paese”. Quanto distorto fu e com’è possibile che si sia avallato sfacciatamente lo scambio di due cadaveri, quello di Narducci e quello di un ignoto defunto?
Mi sono riferito all’assurda accusa di abuso d’ufficio in concorso con il P.M. Giuliano Mignini contestata dalla Procura di Firenze su fatti inesistenti dall’inizio e per i quali anche solo in via di ipotesi non era competente. Soprattutto la stampa locale ha seguito la vicenda anche con notizie in prima pagina e sulle locandine, sposando in pieno le tesi del pubblico ministero fiorentino e rappresentandoci come due funzionari infedeli. Le notizie, però, frutto di indiscrezioni che forse sarebbe stato quanto meno opportuno vagliare con grande attenzione, erano prive di fondamento tanto che, dopo otto anni, le accuse sono state cancellate con il pieno proscioglimento di entrambi. Credo appunto che quanto subito a opera di magistrati non competenti per ipotesi di reato inesistenti non faccia onore a una giustizia amministrata con serietà dalla stragrande maggioranza dei magistrati che lavorano riservatamente con professionalità, nell’interesse della collettività e non per altre motivazioni.
Lo scambio dei cadaveri del Lago Trasimeno è un altro eclatante episodio di mala giustizia, purtroppo rimasto impunito anche per l’intervenuta prescrizione dei reati.
Si è mai sentito sotto autentica minaccia come in certi momenti delle sue indagini sul mostro o dopo la chiusura del caso?
Come ogni investigatore che si interessa soprattutto di fatti criminali gravissimi, come è capitato a me in 32 anni, ci sono stati momenti in cui ho percepito situazioni di rischio, ma non avrei mai e poi mai immaginato di poter avvertire situazioni particolarmente gravi durante l’inchiesta sul cosiddetto Mostro di Firenze. Ci sono state, infatti, non solo minacce di morte, reiterate, ma anche danneggiamenti e chiare intimidazioni (tutte denunciate) per l’attività che stavo svolgendo sul segmento dei possibili mandanti, mai registrate quando si indagava sui complici di Pacciani. Evidentemente l’indagine sui mandanti stava preoccupando qualcuno, anzi forse più di qualcuno.
Perché, a differenza della maggior parte dei casi di grande impatto mediatico, qualcuno ha voluto sorvolare sull’ipotesi cardine del suo impianto investigativo, ovvero che ci fossero mandanti occulti?
L’investigatore si deve attenere ai dati oggettivi dell’inchiesta, a quei fatti ed esiti certi che affiorano e che poi vengono cristallizzati in sentenze. Questo è il suo lavoro. Gli altri sono liberi di pensarla come vogliono, purché siano in buona fede come ritengo. Diverso sarebbe il caso se si dovessero accertare azioni di depistaggio o in genere di violazioni di legge che andranno perseguite. L’indagine sui complici di Pacciani, che ha rappresentato la vera svolta investigativa, è stata valutata positivamente da numerosi giudici (Giudice dell’udienza preliminare, dei vari Tribunali del Riesame, della Corte d’Assise di Firenze, della Cassazione…), venendo cristallizzata in sentenze in appena tre anni, esito più unico che raro per la giustizia italiana per vicende così complesse. Questi sono i fatti che contano e non ciò che altri possono pensare e che sono liberi di pensare. Per i mandanti, poi, si è trattato di una esplicita richiesta dei giudici della Corte d’Assise che, condannando Vanni e Lotti in concorso con Pacciani per gli ultimi quattro duplici omicidi, hanno fornito un input alla Procura per indagare su possibili mandanti, come avevano dedotto da alcune testimonianze e fatti oggettivi quale la ingiustificata disponibilità di denaro in quegli anni da parte di Pacciani e di Vanni. E devo dire che avevano visto bene perché le successive indagini hanno consentito di ottenere elementi su alcuni personaggi altolocati che sarebbero stati interessati anche a riti di magia nera e festini con minorenni ai quali avrebbero partecipato anche i compagni di merende.
Le capita ancora di captare commenti o espressioni sarcastiche quando tira in ballo il ruolo di magia nera ed esoterismo nel caso del Mostro di Firenze?
Magia nera, esoterismo, come pure di festini di sesso anche con minorenni sono aspetti che dalle indagini svolte si sono incrociati con la vicenda del Mostro per cui credo che gli eventuali commenti o espressioni sarcastiche siano di chi non conosce in profondità l’inchiesta o di chi agisce per altre finalità. Il mondo della magia nera e delle sette sataniche esiste ed è affiorato nelle indagini, ma forse ancora oggi non si è adeguatamente preparati a contrastarlo, trattandosi soprattutto di attività segrete.
Dietro la figura di Lotti, un uomo dall’aria semplice, incapace di fare del male a una mosca (a differenza dei compagni di merende Pacciani e Vanni), si celano segreti essenziali?
Purtroppo non abbiamo avuto modo di conoscere a fondo Lotti, il quale morì improvvisamente mentre era detenuto per scontare la pena. Eravamo sicuri che fosse implicato in alcuni fatti, come comprovato dalle sentenze di condanna. Altre indagini, successive alle sentenze, hanno fatto assumere a Lotti un ruolo ancor più rilevante per i suoi rapporti anche con personaggi altolocati, dediti a messe nere, festini e orge, dai quali era ricompensato con somme in denaro. Ma non è stato possibile contestargli questi nuovi fatti perché si è portato nella tomba segreti che non aveva voluto confessare, forse per timore di fare una brutta fine, come si sospetta sia capitato ad altri depositari di segreti inconfessabili (Vinci Francesco e Milva Malatesta), o per non coinvolgere nei fatti di sangue personaggi di un altro ceto sociale.
Senza fare necessariamente nomi, può spiegare ai lettori quanto sia fondamentale la sintonia tra i servitori dello stato?
La sintonia tra le istituzioni, nella specie tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, nella conduzione delle inchieste è fondamentale. Come a Firenze è successo tra la polizia giudiziaria e il pubblico ministero Gabriele Chelazzi che, con la sua indiscussa professionalità e con le sue rare qualità umane, ha saputo a coordinare il lavoro di tre distinti organismi investigativi (Dia, Digos e Ros), riuscendo a chiudere le indagini preliminari sulle stragi di mafia del 1993 a Firenze, Roma e Milano in appena due anni, con l’individuazione di 28 mafiosi esecutori e mandanti all’interno di Cosa Nostra condannati definitivamente in quattro anni di processi: le uniche stragi scoperte in Italia.
Che ruolo ha avuto “Beppe” in questa vicenda? In tutti questi anni, il suo nome non ha mai avuto una grande rilevanza sui reportage giornalistici…
Il “Beppe”, citato così nel libro, ma identificato compiutamente negli atti, potrebbe avere avuto un ruolo, data la sua amicizia con Pacciani, ma su di lui non è stato possibile eseguire approfondimenti perché, quando abbiamo acquisito le informazioni, abbiamo accertato che era deceduto a distanza di alcuni mesi dalla morte di Pacciani. Sarebbe stato un personaggio interessante su cui lavorare anche per cercare di chiarire alcuni aspetti della vicenda, tra cui quello della cartuccia collocata nell’orto che a distanza di 30 anni, grazie a nuove perizie, sarebbe risultata non compatibile con la famosa pistola Beretta e, dunque, frutto di una manomissione. Un esito che farebbe pensare a un’avvenuta azione di depistaggio per incastrare il rozzo contadino quale unico Serial killer.
Se qualcuno le chiedesse quale elemento è realmente mancato agli inquirenti per raggiungere la cupola di insospettabili, professionisti e notabili, in un intreccio di sessualità malata, violenza cieca, sete di potere, esoterismo maligno e, perché no, tracce soffuse di segreti nazionali inconfessabili, lei cosa indicherebbe?
Un solo elemento è mancato: la vera volontà da parte di tutti di andare a fondo cercando di raggiungere una verità che potesse essere la più completa possibile, nonostante i lunghi anni trascorsi. Perché questa dei Mostri di Firenze è una storia ancora presente e non semplicemente una vicenda che avrebbe potuto identificare al massimo “qualche arzillo novantenne”, come affermato agli inizi del 2000 all’inaugurazione dell’anno giudiziario dall’Avvocato Generale di Firenze criticando le indagini della squadra mobile e del PM di Firenze quando l’inchiesta sul mandante stava per muovere i primi passi. La vicenda dei Mostri di Firenze è ancora attuale e ci sono chiari elementi, indicati nel libro, che la rendono tale.
Lei scrive, “Dopo la chiusura del Gides, ai miei collaboratori… fu interdetto il ritorno alla squadra mobile”. Un provvedimento estremamente punitivo. Cosa si sente di dire ad anni di distanza?
Aggiungerei il dichiarato motivo di questa punizione ingiusta: “Avete fatto parte di un gruppo che ha cercato di destabilizzare la polizia”. Assurdo! Forse si temeva che l’indagine avrebbe potuto scoprire qualcosa di particolarmente grave per la polizia,.al punto da destabilizzarla?
La “pista sarda” quanto affossò e quanto aiutò a dare una direzione alle indagini?
La “pista sarda”, seguita dal 1982 al dicembre 1989, è stata sicuramente un’attività di depistaggio che ha orientato l’indagine nel mondo di personaggi di origine sarda abitanti in Toscana. Suggerita da un anonimo, ha orientato le indagini su personaggi che non avevano avuto niente a che vedere con il serial killer che si stava cercando, sfalsando già all’epoca i tempi di una indagine sicuramente complessa e dai risvolti inimmaginabili. Dopo la sua archiviazione forse qualcuno dei sardi in Toscana si è potuto attivare con le proprie conoscenze anche istituzionali per fare in modo che non si indagasse più su quella pista per non ledere i loro interessi lavorativi, leciti e non. In questo contesto, mi sembra verosimile che qualcuno abbia potuto fornire alla polizia la “soffiata” sulla responsabilità di Pacciani – che comunque aveva avuto a che vedere con la vicenda – in quanto unico serial killer, già individuato tra i sospetti dal certosino lavoro della Squadra Antimostro (SAM) coordinata dal pubblico ministero. E in quel contesto temporale e fattuale potrebbe inquadrarsi il sequestro di persona di Augusto De Megni, nipote di un capo massone di Perugia, liberato dalla polizia senza riscatto e, a quanto pare, mediante il pagamento di un’ingente somma riservata all’informatore che aveva fornito notizie sul luogo della custodia. In quegli anni a Perugia era circolata la voce pubblica che il Mostro fosse stato Francesco Narducci e da indagini riservate della massoneria si era accertato che aveva avuto a che vedere con quei delitti. Si era aperta, quindi, una frattura tra coloro che volevano che fosse nota la verità e coloro che invece intendevano mantenere la segretezza delle loro indagini. Aveva vinto quest’ultima decisione. Francesco Narducci, Mostro di Firenze, deceduto a distanza esatta di un mese dall’ultimo delitto, però, avrebbe potuto chiudere il caso dell’unico serial killer, come poi in quel medesimo contesto temporale del sequestro sarebbe accaduto con Pacciani. Certo si tratta di una deduzione investigativa, ma fu frutto degli elementi acquisiti, collocati in un meticoloso esame retrospettivo dell’intera vicenda.