Nei nostri presepi i Magi che incedono, per ora, ancora in groppa ai cammelli hanno iniziato, un passetto al giorno, il loro percorso di avvicinamento alla grotta dove noi abbiamo diligentemente e soavemente collocato Maria, Giuseppe e Gesù, con il bue e l’asinello. Li osserviamo seguire una stella, mentre siamo immersi in uno stato di ansia che per il momento non accenna ad allentare la sua presa. La pandemia ci tiene ancora sulla corda, molti di noi fanno, forse, nuovamente brutti sogni notturni che accompagnano il buio delle prime giornate invernine.
Del resto la tradizione dice che sono notti intense. Le notti in cui i ‘morti vanno in giro vagando’.
Un po’ come accade nei paesi di lingua inglese di qua e di là dell’Atlantico – e ora anche da noi – le scorribande dei bambini questuanti per Halloween costituiscono un esempio attuale di una consuetudine analoga del passato, di quelle torme di bambini e di ragazzi mascherati che scorrazzavano per i villaggi europei del Medioevo profondo nei dodici giorni che separano il Natale dall’Epifania. Ovunque l’identificazione dei questuanti con i morti sembra innegabile: il rito apparentemente giocoso della questua (dolcetto/scherzetto nella notte del 31 ottobre) rispolvera i sentimenti ambivalenti dei vivi – paura, senso di colpa, desiderio di procurarsi favori attraverso penitenze – verso i morti, altrettanto ambivalenti. I morti chiedono, hanno sete, hanno desideri, e proprio in queste dodici notti tornano per dirlo ai vivi.
A riferircelo è un insieme eterogeneo di racconti, di leggende, di sogni collettivi che affondano molto indietro nel tempo e che sono arrivati fino a noi attraverso una serie di testi letterari, prediche, scritti di devozione, raccolte di canoni, manuali per confessori, trattati di demonologia, romanzi in versi, poemetti popolareggianti, che vanno dal X al XVII secolo. In tutta Europa, e con molta intensità nel mondo germanico e celtico, si credeva, infatti, che le anime dei morti si aggirassero tra i viventi soprattutto tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo.
Questi racconti, spesso pieni di particolari inquietanti, comporrebbero la trama di un ottimo film horror. Cortei di lupi mannari camminano nel buio guidati da un bambino zoppo, e il periodo preferito per le loro scorribande – nei paesi germanici, baltici e slavi – è proprio quello delle dodici notti tra Natale ed Epifania, quando le anime dei morti vanno vagando. Al principio del Quattrocento i contadini del palatinato credevano fermamente che una divinità di nome Hera, portatrice di abbondanza, vagasse colando come una strega in quelle stesse dodici notti consacrate al ritorno dei morti. Gruppi di giovani (gruppi minuscoli, composti da soli due o tre persone, ma anche grandi fino a venti o trenta) giravano per i villaggi ungheresi facendo baccano, portando alla gente notizie dall’aldilà e riferendo i desideri dei morti.
I morti che andavano in giro vagando non si facevano però vedere da tutti. Una schiera composta da uomini e donne defunti e guidata di solito da figure maschili si rivelava occasionalmente e quasi esclusivamente a uomini in viaggio, cacciatori, pellegrini, viandanti. Un corteo di sole donne morte, invece, guidato nel buio da figure femminili, si manifestava quasi sempre ad altre donne che cadevano in stato di estasi durante incontri che si ripetevano con regolarità.
Tutto ciò faceva paura, naturalmente, e spingeva ad inventare fantasiosi mezzi per difendersi. Un erudito greco vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo raccontò ad esempio che gli abitanti di Chio usavano scottare le piante dei piedi ai bambini nati tra Natale ed Epifania, proprio perché́ non si unissero a quegli spiriti deformi che, nello stesso periodo dell’anno, lasciavano il mondo sotterraneo per aggirarsi sulla terra.
I lupi mannari, che si vantavano di tener lontane le streghe e di combatterle, erano uomini che all’apparizione del bambino zoppo assumevano forma di lupo, ancora una volta durante i dodici giorni compresi tra il Natale e l’Epifania. Erano migliaia. Molte cose su di loro le raccontò ai giudici di Jiirgensburg, in Livonia, che l’interrogavano, un uomo di ottantanni di nome Thiess che i compaesani consideravano un idolatra (la sua testimonianza è ricostruita da Carlo Ginzburg in Storia notturna). Siamo nel 1692 e Thiess confessa di essere sì un lupo mannaro ma, anche, che lui e gli altri i lupi mannari della Livonia agiscono a fin di bene, vanno alcune volte all’anno (una appunto intorno al Natale) fino all’inferno per battersi contro il diavolo e gli stregoni, e le armi di questa strana battaglia sono fruste di ferro e manici di scopa avvolti in code di cavallo. La posta delle battaglie è la fertilità dei campi, perché gli stregoni rubano i germogli del grano, e se non si riesce a strapparglieli arriva la carestia.
Inutilmente i giudici cercarono di indurre il vecchio ad ammettere di aver stretto un patto col diavolo. Thiess continuò a ripetere con ostinazione che i peggiori nemici del diavolo e degli stregoni erano proprio i lupi mannari come lui e che perciò, dopo morti, sarebbero andati tutti in paradiso. Va da sé che, poiché́ rifiutava di pentirsi, questo singolare lupo mannaro protettore dei raccolti fu condannato a dieci colpi di frusta. Alcuni studiosi moderni pensano che i presunti lupi mannari sarebbero stati in realtà̀ giovani adepti di associazioni settarie, formate da incantatori o da individui mascherati da lupi, che durante i loro rituali s’identificavano con l’esercito dei morti, dei quali ricordavano ai vivi la sete inestinguibile bevendo a non finire e finendo il rito a cavalcioni delle botti, dove di vino e dove di birra o idromele. È da presumere ubriachi fradici.