di Marcello Cecconi
Dopo aver affrontato la terribile tappa che ha portato i ciclisti a faticare sulle rampe del Gran Sasso, il Giro sta avvicinandosi alla Toscana dove arriverà il prossimo mercoledì. Sarà il giorno della temibile tappa che li condurrà da Perugia nelle terre senesi: oltre 160 chilometri di saliscendi prima di toccare le irte salite nelle strade bianche e polverose, in mezzo ai filari di Brunello, che salgono fino a Montalcino. Poi il giorno dopo la partenza da Siena che porterà la carovana del Giro, valicando gli Appennini, nell’assolata Romagna. In questi giorni, Culture Globalist, non racconterà ciò che accade nella quotidiana cronaca (ad altri questo compito) ma coglierà l’occasione per narrare le gesta di alcuni grandi campioni del passato attraverso i ritratti che ne farà Marcello Cecconi. Iniziando la rubrica in queste tappe appenniniche, come non scegliere, quale primo protagonista, lo scalatore per eccellenza, Charly Gaul?
Charly Gaul e l’agguato della pipì
Era la tarda primavera del 1957, il 6 giugno per l’esattezza, e si stava svolgendo la quarantesima edizione del Giro d’Italia. Il favoritissimo Charly Gaul perse il Giro per essersi fermato a far pipì. Era chiamato “l’angelo della montagna”, peso leggero, scalatore e cronoman coraggioso quanto timido nelle discese.
Il lussemburghese aveva vinto da eroe il Giro dell’anno precedente prendendosi la maglia rosa a due tappe dal termine, in quella che andava da Merano al Monte Bondone con attraversamento anche dei passi del Rolle e del Brocon, sterrato. In una tempesta di neve, vento e gelo, Gaul tagliò il traguardo in solitario staccando di sette minuti Alessandro Fantini e di dodici Fiorenzo Magni. Il lussemburghese semicongelato, riuscì a parlare solo dopo essere stato aiutato a braccia a scendere dalla bici e immerso in una vasca d’acqua calda. Metà dei ciclisti partiti quella mattina si erano ritirato durante il percorso.
Charly Gaul al giro del 1956
L’anno successivo, dunque, Gaul era l’uomo da battere e gli avversari erano l’ormai maturo e completo campione Francese Luison Bobet e il passista-velocista spagnolo Miguel Poblet. L’Italia puntava sul mugellano Gastone Nencini che due anni prima aveva sfiorato la vittoria e su due giovani: il romagnolo Ercole Baldini e il trentino Aldo Moser, fratello maggiore di quel Francesco Moser, campione degli anni ’70 e ’80.
Quell’anno la televisione aveva cominciato a seguire il Giro e Charly Gaul, a cui piaceva pavoneggiarsi come un consumato attore, era sempre davanti, in primo piano, ad attaccare. Voleva dimostrare che l’impresa dell’anno precedente sul Monte Bondone non era stata una semplice circostanza resa favorevole dalle intemperie. Aveva iniziato bene vincendo facilmente la seconda tappa a cronometro di Boscochiesanuova e dopo che una foratura sul Passo del Gran San Bernardo gli annullò la fuga permettendo il rientro a Gastone Nencini e Louison Bobet, alla sedicesima, a Campo dei Fiori, tutti dovettero arrendersi. I suoi continui strappi in salita gli permisero di conquistare la maglia rosa dando un minuto all’italiano e due al francese.
Il più era fatto, dopo due giorni ci sarebbe stata la tappa del Bondone e, quell’anno, il tempo era clemente. Avrebbe dovuto essere la solita tappa di pochi accadimenti fino alla salita finale e dove, normalmente, gli uomini di classifica hanno tutto l’interesse a stare vicini e, quando i bisogni corporali chiamano, soddisfarli senza scendere dalla bicicletta o, semmai, fermarsi tutti insieme per evitare fughe o inseguimenti inutili. E comunque, in questi casi, esiste un tacito codice d’onore che stabilisce che non si deve attaccare.
Ma così non accadde, l’intesa non funzionò per lo “sfrontato” Gaul che si permise anche stavolta di superare con la sua aria sorniona e vanitosa il gruppetto con Nencini, Baldini, Poblet, Geminiani e il permaloso francese Bobet. Superati costoro, Gaul si fermò a un lato della strada e, mentre questi passavano, si girò guardandoli con un sorriso quasi di sfida: si appartò e iniziò a far pipì.
Bobet, il francese, lo prese come uno sgarbo e pensò che un ciclista che si apparta per i propri bisogni non avrebbe meritato rispetto alcuno. Gli mostrò il medio, chiamò a raccolta i suoi gregari e decise di attaccare con forza. Nencini, Baldini e Poblet approfittarono dell’occasione e parteciparono attivamente alla fuga tanto che Gaul, restando quasi da solo, non riuscì mai a rientrare in gruppo. All’arrivo aveva perso dieci minuti: Bobet vinse la tappa Nencini prese la maglia rosa e Gaul per una pisciata perse la sua e il Giro. La vittoria finale andò a Gastone Nencini, davanti a Bobet e Baldini. Gaul fu solo quarto.
Questa è una delle tante storie di questo sport un tempo chiamato lo sport dei poveri. Adesso non più anche se resta molto lontano dal diluvio di investimenti di altri sport nazionali. Eppure il ciclismo è ancora amato proprio per questo, perché è nato povero per poveri, un po’ come la boxe. Sudore, vento, pioggia, sole infernale, polvere. C’è un alone di eroismo intorno a questi coraggiosi che sceglievano e scelgono anche oggi uno sport di estrema fatica, con tanti rischi e con guadagni relativamente bassi.
Si, certo, il doping ha gettato un’ombra scura anche nel ciclismo ma con o senza doping, è ancora una faticaccia nonostante le bici siano sempre più leggere, le strade meno polverose e sassose di un tempo e si frequentino alberghi che non sono più le topaie del dopoguerra. È fatica attaccare, inseguire, salire e scendere oppure tirare la volata al compagno velocista o tentare di vincerla personalmente, fare una cronosquadre oppure una crono individuale. Già pedalare nel gruppone è un rischio, sbandi di cinque centimetri e fai strike e poi, quale altro sport professionista ti costringe a espletare tutte le funzioni corporali, e dico tutte, mentre continui a pedalare?