Qualche giorno fa il quotidiano La Stampa ha intervistato Renzo Piano, l’architetto che da anni si sta misurando con un nuovo modello di ospedale e sta ora progettando il grande complesso che sorgerà nella banlieue a nord di Parigi. I suoi caratteri distintivi saranno l’efficienza energetica, i materiali eco-compatibili, il verde in gran quantità dentro e intorno a uno spazio pensato a misura d’uomo. Le architetture saranno flessibili, in modo da poter cambiare a seconda dell’evoluzione delle esigenze organizzative o terapeutiche. Il complesso non sarà isolato dal tessuto urbano circostante. E sarà un ospedale bello, non solo funzionale, perché metterà al centro della ricerca di soluzioni architettoniche e urbanistiche lo stato d’animo di chi subisce direttamente o indirettamente il ricovero, per renderlo meno traumatico possibile.
Per immaginare, su queste basi, l’ospedale del futuro l’architetto ha preso in rassegna le tipologie ospedaliere ottocentesche e quelle novecentesche, analizzando pregi e limiti della due soluzioni, a padiglione la prima e a monoblocco la seconda, e ha iniziato a mixarle per farne scaturire la sua che recuperi quella che chiama una ‘visione umanistica’ dell’ospedale.
Però chi, come la sottoscritta, da anni scartabella e studia la documentazione degli antichi ospedali medievali rimane colpito. Fatte salve le differenze (che rimangono naturalmente enormi nelle terapie, nei macchinari per la diagnosi e la cura ecc…) alcuni aspetti della proposta di Piano per l’ospedale del futuro richiamano in maniera impressionante i principi sui quali si basavano i grandi ospedale urbani degli ultimi secoli del Medioevo e della prima età moderna.
Si trattava, già allora, di edifici importanti, veri pezzi di città, nuclei di protezione sociale ben riconoscibili in punti nevralgici, scenari di solenni cerimonie pubbliche. I più avevano grandi corsie luminose, dove il sole potesse scaldare. Intorno orti e spesso, all’interno, cortili e giardini.
Per l’efficacia delle soluzioni gli ospedali italiani furono considerati come un modello in varie parti di Europa, fin dalla fine del Trecento e poi durante i processi di riforma quattrocenteschi. Di un confronto a scala europea su quale fosse il miglior modello al quale ispirarsi restano ampie tracce in relazioni-questionario che circolarono in Toscana, in tutta l’area lombarda, in Sicilia e anche fuori d’Italia, in un grande lavoro di confronto.
Nel 1452, il duca di Milano Francesco Sforza si rivolgeva ai suoi ambasciatori per avere notizie sui loro maggiori ospedali “a similitudine de’ quali” poteva organizzare l’ospedale maggiore della sua città e poi nel 1456 inviava il fiorentino Antonio Averlino, detto il Filarete, architetto di grido, a Siena e a Firenze, chiedendo a Giovanni de’ Medici di agevolarne la visita a Santa Maria Nuova, affinché studino «como è sito et edificato per forma che ne possino cavare il disegno». Nel 1524 la descrizione di Santa Maria Nuova veniva richiesta anche dal re d’Inghilterra, nel 1546 dall’imperatore Ferdinando. Infine si trova eco dell’esperienza fiorentina in Portogallo, di quella senese a Barcellona.
Il fatto che i modelli circolassero e fossero conosciuti e valutati dagli esperti prescinde, naturalmente, dalla loro effettiva realizzazione. Alcuni, infatti, apparvero subito difficilmente esportabili, qualche volta per motivi politici e qualche altra per la peculiarità del disegno architettonico o urbanistico del modello. Ma l’archetipo architettonico italiano di maggior successo, quello cruciforme codificato dal filarete nel suo Trattato di architettura e nel progetto che gli fu commissionato dallo Sforza per l’ospedale milanese, fu rielaborato ed esportato nell’ospedale Savoy (oggi scomparso) e nella penisola iberica, e può perciò essere considerato un esempio di sintesi culturale europea.
La forza innovatrice del modello architettonico elaborato da Filarete è innegabile: otto sale che formavano due croci greche inscritte in altrettanti quadrati, uno per gli uomini e uno per le donne, con otto cortili minori e un grande cortile rettangolare al centro con la chiesa e il cimitero. I due temi ricorrenti dell’architettura assistenziale, il chiostro-cortile e la sala-corsia, erano integrati nella cittadella ospedaliera e un ingegnoso sistema di smaltimento delle acque faceva dell’ospedale milanese un’opera di grande modernità.
Trasformati con il mutare dei bisogni, resi via via più maestosi e belli, gli ospedali accrescevano la loro reputazione con opere d’arte, oggetti e mobilio, altari e reliquie, patrimoni devozionali preziosi che lubrificavano il flusso delle donazioni e i finanziamenti. E’ facile capire perché ebbero un ruolo forte anche nei processi di definizione del sentimento di appartenenza, divenendo il biglietto da visita delle città e dei governi.