di Chiara Guzzarri
È passato un anno esatto da quando Patrick Zaki è entrato in carcere, il 7 febbraio 2020.
Stava tornando in Egitto per trovare la famiglia, durante una pausa accademica, ma la visita si è trasformata in una detenzione nel carcere di massima sicurezza a Tora, dove ancora oggi si trova.
A nulla sono valse le numerosissime richieste di scarcerazione e non si sa ancora quando e se mai Patrick riconquisterà la libertà, mentre la sua custodia cautelare viene prolungata in continuazione, l’ultima volta di 45 giorni.
Attivista per i diritti umani e collaboratore dell’associazione Eipr (Egyptian Initiative for Personal Rights), Patrick Zaki è stato ex manager della campagna presidenziale di Khaledi Ali, oppositore dell’attuale presidente Al-Sisi. È adesso iscritto all’Università di Bologna, al Master Gemma.
Accusato di terrorismo, incitamento alla protesta e diffamazione dello Stato tramite i mass media, Zaki rischia fino a 25 anni di carcere per dei post di un account Facebook, che la difesa considera falso, ma è stato sufficiente per la magistratura egiziana al fine di formulare le pesanti accuse.
Molti ritengono che Patrick Zaki sia un prigioniero di coscienza detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.
Ma cosa ne pensano i nostri ragazzi?
Leonardo, studente dell’Università di Siena, ha saputo della vicenda tramite i giornali e perché all’ingresso del polo della sua facoltà è situato un banchetto con un suo cartonato e dei dépliant informativi. Sul caso vi sono molti dubbi, secondo lui, dal momento che l’Egitto è in stato d’emergenza dichiarata dal governo. In questa situazione saltano tutti i cardini dei diritti legislativi, a maggior ragione in un paese dove i diritti civili non sono esattamente la priorità. Proprio per questo è portato a pensare che la sua detenzione non sia conciliante con i diritti umani ed è tentato a credere alle voci che parlano di torture e percosse.‘Sarebbe il caso di tirarlo fuori da lì – afferma Leonardo – perché nel 2021 è giusto tutelare i diritti umani, sia delle persone sia di chi se ne fa portavoce. Penso sia un caso molto, troppo, simile al caso di Giulo Regeni, ma spero non si concluda allo stesso modo’. Secondo lui servirebbe un intervento combinato da parte dell’ambasciata e dell’Unione Europea, servirebbe un po’ più di decisione nelle trattative e una linea più dura per smuovere le acque.
Alessio lavora, e crede che l’Egitto non sia un vero paese democratico, mette le persone in carcere con false accuse inducendo le persone a non alzare la voce contro lo Stato. Sono questioni queste, secondo lui, che non possono essere affrontate unicamente da dei ragazzi attivisti, ma che richiedano un’attenzione globale: dovrebbero essere gli altri Stati a creare una situazione in cui l’Egitto è portato a rispettare maggiormente i diritti dell’uomo. Il grosso problema per Alessio è il come fare, perché i vari Stati dovrebbero essere indipendenti da risorse ed economie, e solo in quel caso potrebbero avanzare richieste e sanzioni. Servirebbe un’evoluzione in termini di sostenibilità interna per poter fare le scelte, anche da un punto di vista sociale, con maggior libertà, senza essere soggetti a ricatti economici. Inoltre, per quanto gli attivisti permettano di portare all’attenzione le questioni e quindi, teoricamente, indurre i politici a mobilitarsi, bisognerebbe iniziare a pensare maggiormente come Unione Europea, piuttosto che unicamente come singolo Stato. Come si usa dire: ‘l’unione fa la forza’. Così facendo permette a tutti di avere un maggiore peso politico, anche in questioni come la vicenda di Zaki, e accresce le possibilità di avere dei risvolti concreti.
Federica e Giada studiano all’Università di Pisa, hanno saputo della vicenda prevalentemente tramite social media. Entrambe sono d’accordo nel dire che l’Egitto non è un paese in cui si possa esprimere la propria opinione. Ovviamente Egitto e Italia sono due paesi completamente diversi, ma per quanto sia ovvio che la libertà di espressione debba essere garantita ovunque, bisognerebbe trovare però i giusti mezzi per metterla in atto. Quello che è successo a Patrick Zaki, secondo le due studentesse, è anche frutto di una cattiva comunicazione fra i due paesi: è sempre difficile comunicare con altri paesi, soprattutto se così lontani da noi culturalmente. Federica si chiede se l’Italia stia intraprendendo un percorso adatto a risolvere questa situazione: non è possibile per lei saperne poco o nulla delle condizioni in cui questo ragazzo è detenuto. La sua preoccupazione è che si ripeta la vicenda di Giulio Regeni. Un paragone che le sorge spontaneo parlando è anche il riscontro con la famiglia di Zaki. Mentre per il caso Regeni la famiglia si è subito mobilitata intraprendendo una vera e propria lotta, della famiglia di Zaki non si sa niente. ‘La famiglia di Giuilio era in Italia – riflette Federica – con il figlio sparito all’estero. La famiglia di Zaki vive in Egitto e magari non ha la possibilità o ha paura ad alzare la voce contro la detenzione del figlio, visto il regime vigente’.
Anche Lorenzo studia a Pisa, e afferma convinto che Al-Sisi abbia paura dei ragazzi come Patrick Zaki, perché denunciano quello che succede in Egitto. Dal 2017 Al-Sisi ha dichiarato lo stato d’emergenza, e le accuse fatte a Zaki sono molto pesanti. La custodia cautelare viene prolungata a oltranza senza arrivare al processo perché è il modus operandi del governo con gli attivisti, ci sono giornalisti che sono in carcere senza processo da tre anni o più grazie a queste modalità. Per Lorenzo dovremmo impegnarci molto di più su questo campo, adottando un atteggiamento deciso ed intransigente, e se l’Italia da sola non è capace, dovrebbe essere l’Unione Europea a far sentire la sua voce in merito.
Matteo di Zaki ha seguito le notizie dal momento dell’arresto tramite Internazionale e notiziari, successivamente solo sul settimanale, salvo qualche articolo ogni tanto sui notiziari nei quali si fa riferimento alla costante proroga della detenzione in carcere.
Ha seguito le vicende, che definisce, assolutamente contraddittorie a livello diplomatico, specialmente nella situazione ‘Egitto’, dove non c’è stata mai una reale richiesta o dialogo per la scarcerazione, se non in modo ‘goffo’. Clamoroso per lui è il fatto che sia stato ascoltato per altri attivisti l’appello di scarcerazione arrivato direttamente da Hollywood, fatto da Scarlett Johansson, mentre il nostro governo ancora si trova in una trattativa che non risulta evidentemente nella lista delle priorità da diverso tempo. È, a suo giudizio, il problema comune della politica, sia italiana che estera: secondo Matteo se non coinvolge la ‘nostra cerchia ristretta’ spesso è il menefreghismo a farla da padrone, e questo è un grande problema da affrontare.