Case, strade e cose che si accumulano nelle puntiformi periferie romane in un discorso almeno urbanistico e architettonico in apparenza privo di una forma definita eppure con una sua vitalità. Così si può almeno in parte sintetizzare il racconto fotografico che Massimo Siragusa impagina nella mostra di nuovo aperta al Museo di Trastevere nella capitale dopo la chiusura forzata dalla pandemia. In cento foto il vincitore di quattro World Press Photo con reportage a tappeto lungo l’arco di un paio di anni ha inquadrato palazzi, auto, ringhiere, cancelli, terrazze nella rassegna prorogata fino al 14 marzo e curata da Giovanna Calvenzi.
Quale Roma mostra con le sue fotografie?
A grandi linee è la Roma delle periferie, quella vissuta dalla maggior parte della gente che vive in questa città. È una Roma un po’ nascosta che l’iconografia classica non mostra, fuori dalla straordinaria Roma della grande bellezza.
Dalle sue foto emerge l’accumulo di costruzioni, di manufatti e cose, fino alle piante finte. È così?
Sì. Già da un punto di vista anche delle costruzioni architettoniche si è sviluppata una periferia senza un vero controllo dell’espansione del territorio per cui ognuno più o meno ha fatto quello che ha voluto. Per cui le cose si sono sfruttate costruendo insediamenti intensivi e palazzoni da 10-12 piani, oppure la periferia si è sviluppata in maniera autonoma per cui ognuno si è costruito una piccola casa, un recinto, ha chiuso un’area e così si è espansa. E si vede questo caos visivo.
Nelle sue immagini non compaiono persone. Come si vive in queste zone tra l’altro molto diverse tra loro?
Non sono zone omogenee ma tutte quante sono accomunate da questa anarchia visiva e cromatica. Come si vive? Fuori dal centro in una città così grande con difficoltà di trasporto croniche, con distanze enormi e con la densità di popolazione la vita è abbastanza complessa. Peraltro la periferia ha costruito dei punti di riferimento per la parte commerciale: ci sono grandi centri, supermercati, è votata soltanto al consumismo, non ci sono altri servizi, c’è poco verde, ha pochissimi luoghi di aggregazione.
È anche un sistema politico che lo ha permesso, pure se ci sono state risposte e strategie molto diverse tra amministrazioni differenti.
È un sistema di speculazione. Roma non ha investito nell’industria, la sua industria maggiore è stata l’espansione urbanistica e il risultato è questo.
Le periferie romane sono diventate oggetto di molti film. Tra gli ultimi due casi di successo e ben riusciti vengono in mente la commedia “Come un gatto in tangenziale” di Riccardo Milani con Paola Cortellesi e Antonio Albanese e “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo. C’è un’attenzione diversa nei confronti delle periferie?
Credo che l’attenzione verso le periferie non sia mai abbastanza e dal punto di vista politico non ce ne sia tantissima. Come spesso accade ci sono riferimenti, come in questo caso il cinema, che accendono i riflettori su una realtà a prescindere dal fatto che sia raccontata con un taglio più leggero o meno. È però importante, pone attenzione a un territorio che poi è quello vissuto, quindi verso le persone, la realtà che vediamo ogni giorno.
Quale film ritiene abbia colto meglio lo spirito di una periferia?
Tutti e due i film che ha citato sono stati molto efficaci nel raccontare le periferie romane. “Favolacce” lo ha raccontato in maniera più drammatica, la commedia in maniera più leggera ma l’identità della famiglia che abita a Bastogi (è quella guidata dal personaggio di Paola Cortellesi nel “gatto in tangenziale”, ndr), le difficoltà del vivere in cinque in un appartamento, l’aggressività che si accumula, sono quelle. Entrambi hanno fatto un ritratto abbastanza reale.
Il sito del Museo di Trastevere
Siragusa: «Le periferie di Roma, un caos visivo votato al consumismo»
Il fotografo espone i suoi reportage al Museo di Trastevere: «Film quali “Favolacce” e “Come un gatto in tangenziale” raccontano bene le difficoltà del vivere lontano dalla “grande bellezza”»
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7 Febbraio 2021 - 16.17
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