di Linda Salvetti
Molto l’interesse, e molte le critiche, sta suscitando l’idea di un’offerta culturale a pagamento sul web: quella cioè che, forse con estrema sintesi comunicativa, è stata definita nel lancio come la “Netflix della cultura italiana”. Una piattaforma, va detto subito, che nasce con la partecipazione di fondi pubblici. Una domanda agita il mondo dello spettacolo: questa piattaforma digitale nazionale, annunciata dal ministro dei Beni e attività culturali e del turismo Dario Franceschini, riuscirà ad arricchire la proposta culturale e promuovere la produzione culturale del nostro paese o sarà l’ennesima dispersione di fondi pubblici? I pareri sono discordi: chi elogia l’iniziativa e chi avanza seri dubbi. In questo caso è sempre bene tastare il polso a quelli che dovrebbero essere i primi utilizzatori di questo nuovo strumento di raccordo tra chi produce e chi consuma arte e spettacolo. Ho ascoltato, per questo, più pareri: quelli del musicista Simone Graziano, della ballerina Caterina Bianchi, del regista Francesco Martinotti e dell’attore Leo Gullotta.
La piattaforma, lanciata una prima volta nell’aprile del 2020, e poi di nuovo riproposta a novembre, è stata costituita in tempi record una nuova società controllata al 51% da Cassa depositi e prestiti (Cdp) proprio mentre Fabrizio Palermo, amministratore delegato, è prossimo alla fine del suo mandato. Il restante 49% è della Chili Spa, l’azienda italiana operante nella distribuzione di film e serie tv, fondata nel 2012 da Stefano Parisi. Un investimento che fa rumore, non fosse altro per i 10 milioni di euro pubblici messi a disposizione dal ministero ai quali si aggiungono 9 milioni di Cdp e 9 milioni da parte di Chili. Sono stati esplicitati gli obbiettivi di questo consistente investimento: “Con questi soldi faremo la Netflix della cultura italiana” – si legge in uno dei primi comunicati stampa – “che sia musica, teatro, lirica, opere e anche mostre; una piattaforma digitale per vendere i prodotti dei nostri artisti” specie in questo momento di emergenza pandemica.
Però molti artisti non hanno esultato, anzi le perplessità sono state molte. Leo Gullotta, in un’intervista concessa a Globalist dice: “Siamo fermi. Non è così che funziona il mondo dell’arte e dello spettacolo. È alla ricostruzione che dobbiamo pensare; alla riapertura dei luoghi di cultura secondo tutte le nuove misure anti-Covid”. Un filo rosso che lega anche il pensiero del musicista fiorentino Simone Graziano, che è presidente dell’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz: “Non è un male creare una piattaforma capace di divulgare cultura. Lo streaming sicuramente ha una valenza divulgativa importantissima. Ma il problema vero è ‘che cosa si vuole veramente divulgare? Quale sarà il contenuto?’ Questa piattaforma ricreerebbe delle barriere, di matrice tutta italiana, all’interno degli stessi generi musicali e teatrali. Una divisione che vorremmo abbandonare. Non era meglio potenziare il patrimonio televisivo pubblico? Ci sono già dei canali di divulgazione ad altissimo livello e contenuto, con podcast bellissimi e una valenza culturale molto alta. C’è poi il dramma che noi dello spettacolo siamo tutti a casa da febbraio. Abbiamo 209 miliardi di euro di Recovery Fund e solo l’1,9% è destinato alla cultura. Quindi anziché spendere 10 milioni di euro nella “Netflix della cultura” investiamoli sulla riapertura di tutti i luoghi di spettacolo in sicurezza, dalle sale da concerto al teatro nazionale, a quello di prosa. Un mondo senza cultura, è un mondo vuoto e triste. E fa paura che si pensi a dare lo zuccherino, ma non si pensi a nutrire davvero il pubblico che desidera soprattutto partecipare.”
Anche dalle nuove generazioni dell’étoile alla Scala di Milano, per le quali l’uso dei nuovi media e dello streaming è parte della comunicazione di tutti i giorni, si rivela questa necessità di riaprire il sipario al pubblico più che affidarlo alla tecnologia. Tuttavia, come ci ha rilasciato la ballerina Caterina Bianchi: “Bisogna andare di pari passo con i tempi. Certo il Teatro alla Scala è un tempio unico al mondo e legato da sempre ai suoi fedeli estimatori, ma bisogna trovare anche nuove vie per condividere l’arte, soprattutto con il pubblico più giovane e forse l’utilizzo di media a loro più vicini, potrebbe suscitare un interesse diretto. Purtroppo oggi difficilmente le nuove generazioni si avvicinano al mondo del teatro”. E aggiunge: “Non sappiamo ancora molto dell’idea di Franceschini. Fino ad ora tutte le registrazioni sono state fatte dalla Rai e hanno coinvolto produzioni molto consistenti.”
Qualcun altro si domanda il perché aprire una piattaforma privata per “vendere” la cultura, quando si potrebbe, invece, investire in maniera diretta, nel mondo dell’arte e dello spettacolo per far risalire le sorti della cultura in generale e di tutti gli artisti. Stando alle notizie raccolte dall’Espresso: “non c’è niente di artistico nel progetto Chili/Cdp. Chili è l’unica che ci guadagna. Altro che 9 milioni, ne sgancia (forse) meno di 3: i 6 milioni sono simbolici e riguardano la struttura digitale che Chili offre per creare la piattaforma. L’azienda italiana ha costituito Chili Tech riversandoci 32 dipendenti dei suoi 87; e quest’ultima gestirà la manutenzione e lo sviluppo della piattaforma Chili/Cdp. Se non fosse chiaro: il primo cliente di Chili/Cdp è la medesima Chili”. Carlo Tecce, autore dell’articolo, aggiunge anche che “Il rischio economico è tutto a carico dei teatri, dei musei, dei cantanti, delle compagnie. Chi vuole un posto nel catalogo della piattaforma deve procurarsi da solo lo spettacolo e pregare che ingrani.”
Il regista Francesco Ranieri Martinotti avanza una proposta che mira proprio a“ evitare di far profitti privati col denaro pubblico” e la spiega così: “La piattaforma che ha immaginato Franceschini può essere un inizio ma non può fermarsi a un’esperienza nazionale: deve rientrare in un progetto europeo più ampio, con la capacità di fare una forte alleanza e unire energie e risorse con paesi come la Francia, la Germania e la Spagna. Se si vuole dare una risposta efficace e concreta bisogna creare una piattaforma europea della cultura. Si dovrebbe fare un consorzio europeo con le risorse di Recovery Fund stanziate nei vari paesi in modo da poter preservare e difendere le infrastrutture della cultura”.