di Marcello Cecconi
Sulle Primavere Arabe, che ebbero inizio il 17 dicembre 2010 quando il tunisino Mohamed Buoazizi si dette fuoco per protesta (clicca qui per l’articolo sulle primavere arabe dieci anno dopo), abbiamo intervistato lo storico Giovanni Gozzini, professore ordinario di storia della globalizzazione presso il dipartimento di scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena.
Le cronache dicono che la rete sia stata determinante nella Primavera Araba. Secondo la sua opinione sarebbe mai nata senza la rete e perché?
No, senza social media le primavere arabe, come anche l’onda verde iraniana del 2009, non ci sarebbero state. Nel bene e nel male. II lato positivo riguarda il fatto che, in regimi dittatoriali, i social aprono uno spazio inedito e meno controllabile di libera espressione, ma d’altro canto i social media sono cosa diversa e minore rispetto a un’organizzazione clandestina permanente, quindi è più facile che le mobilitazioni da loro convocate restino senza tracce sedimentate da cui ripartire.
Come si legge, secondo lei, la situazione attuale della Tunisia, prima nazione a dare il via alle proteste e prima e unica a oggi a riconvertire la rivoluzione in un regime democratico di stampo europeo, ma che pure non ha portato a nessun miglioramento rispetto alle motivazioni alle origini delle proteste?
La Tunisia, come l’Iran e molti altri paesi dell’area, è in una lunga e aperta fase di transizione. Il partito Hennada rappresenta forse il meglio di un filone islamista e tendenzialmente democratico, ma finora non si è rivelato capace di guidare la transizione dando benessere e libertà al proprio popolo. D’altra parte l’opinione pubblica non ha saputo, finora, creare organizzazioni politiche capaci di colmare lo spazio tra religione e vita civile. Qui, secondo me, sta il vero tarlo della situazione. Nel mondo islamico è più difficile fare politica in senso laico, e la Tunisia non fa eccezione.
Pensando a piazza Tarhir al Cairo e alla ‘libertà’ creativa giovanile di quella primavera non si può non accennare al caso Giulio Regeni e a quello di Patrick Zaki. Sono un segno del fallimento di quella rivoluzione o delle relazioni internazionali?
L’Egitto incarna la parabola più tipica ed esemplare. La primavera rovescia Mubarak, si tengono le prime elezioni libere della storia, vincono i Fratelli Musulmani, non riescono granché a governare, li rovescia un colpo di stato militare e si torna alla casella di partenza senza passare dal via. Su Regeni ho un’opinione personale. In Egitto spariscono ogni anno centinaia di persone. Se ritrovi un cadavere vicino a un’autostrada vuol dire che hanno voluto farlo trovare: nemici di Al Sisi? Non lo so. Ma forse Al Sisi ha vinto una partita interna contro potenziali oppositori a patto di non rivelare niente sul caso e sui suoi responsabili. Bisogna premere in sede europea per un embargo efficace, da soli non facciamo niente.
Quali riflessi politici ha avuto, quella stagione, sull’atteggiamento politico dell’Europa, intesa come Eu, nei confronti della Libia dell’immediato dopo Gheddafi?
Appunto l’Europa. Qui c’è da appoggiare e spingere Merkel contro Macron. Perché la Francia è stata pessima in Libia, ha cercato di scalzare l’Eni guardando a Haftar come alleato e rompendo l’appoggio unitario a Serraj. Invece, ripeto, se l’UE non sta unita nessuno va da nessuna parte se non Erdogan che fin dall’inizio ha cercato di atteggiarsi a padrino delle primavere arabe e ora appoggia Serraj con uomini e armi. Se l’UE non si dà un corpo militare proprio, capace di intervenire rapidamente, ogni politica nello scenario libico risulterà impotente.
La radicalizzazione delle posizioni islamiste sono giudicate da noi occidentali uno dei lati negativi di quelle rivoluzioni. A suo avviso, la maggioranza dei ragazzi di quelle piazze ha questa stessa visione?
No, per quel che conosco la maggioranza ha un’infatuazione per l’Europa e l’Occidente e quindi vedono come il fumo negli occhi i Fratelli Musulmani. Poi c’è anche una minoranza che crede all’Islam come proposta politica, ma sono in difficoltà perché stretti tra terroristi e filo occidentali. Personalmente credo che questa minoranza sarà la chiave di volta, perché dalla loro evoluzione dipende il futuro immediato della situazione.
Per finire, secondo lei, quali sono i vantaggi politici e culturali, se sono rimasti, di cui oggi possono beneficiare i giovani delle proteste nei loro rispettivi paesi?
Credo che oggi ci sia parecchia sfiducia nella politica. Questa la registro in Israele ogni volta che ci vado. Tendenzialmente prevale un riflusso nel privato e i social non contribuiscono a dar vita alle organizzazioni. Come i nostri moti risorgimentali del 1820-21 può darsi che le primavere arabe siano come Pisacane, in altre parole un sasso che sparisce nell’acqua – come diceva Carlo Rosselli – ma su cui poi la generazione dopo appoggia il piede. Speriamo.