Periodicamente veniamo a sapere dalle cronache che qualche processione nel sud ha fatto “l’inchino” alla casa di un boss e qualcuno, spesso nella stessa Chiesa, giustamente si indigna e condanna quel gesto di sudditanza a poteri criminali del luogo. Affronta la storia di questa usanza e come intrecci mafia, politica e tradizioni un antropologo con un suo saggio, Berardino Palumbo, Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose (Marietti 1820, pp. 176, euro 13).
In questo libro l’ordinario di antropologia all’università di Messina “palesa subito come la ritualità mafiosa sin qui talora abbia sovrastato quella religiosa”, riferisce Marco Roncalli in una recensione sull’Avvenire del 27 maggio scorso. Dice l’editore Marietti nella scheda: “Rendere omaggio ai boss della mafia o ai loro familiari facendo inchinare le statue dei santi durante le processioni è un aspetto della più ampia religiosità diffusa in molte aree del Mezzogiorno, ma anche in alcune realtà del nord Italia. Liquidato come gesto pagano e premoderno, esso in realtà richiede una lettura in grado di comprendere la complessa e più generale macchina rituale della festa. Le famiglie mafiose talvolta provano a controllare i tempi e i ritmi delle processioni religiose e, occupando una precisa posizione sotto le vare, decidere il movimento delle statue; possono gestire i tempi, i luoghi e le modalità dello sparo dei fuochi d’artificio e così rappresentare pubblicamente il proprio status sociale e i rapporti di forza tra uomini. Questi esperti manipolatori dello spazio pubblico guidano auto di grossa cilindrata, maneggiano armi e droga e investono in complesse operazioni finanziarie; non sono dunque gli attori di una società arcaica, ma esponenti del cosiddetto casinò capitalism”.
Palumbo scrive tra l’altro: “Una simile complessa macchina rituale prende corpo in uno spazio sociale e politico regolato da un linguaggio giurisdizionale, di matrice ecclesiastica e ancora oggi in sostanza controllato dalla Chiesa cattolica, attraverso il quale gli attori sociali (persone comuni, devoti, politici e in alcuni casi anche mafiosi) possono competere per l’acquisizione, la rivendicazione e/o la contestazione di diritti, prerogative, status di natura molteplice e complessa”.
Sbrogliare la matassa e affrontare il problema, constata quindi l’antropologo, non è semplice. Che non giustifica affatto quegli inchini. E registra come atto positivo che vescovi e vertici della Chiesa siano oggi molto meno disposti ad accettare simili omaggi al potere di capimafia grazie anche a un forte impulso dato da Papa Francesco: il 14 settembre 2018, nella cattedrale di Palermo, definì la religiosità popolare “un tesoro che va apprezzato e custodito” ma chiese al clero “di vigilare attentamente affinché non venga strumentalizzata dalla presenza mafiosa, perché allora, anziché essere mezzo di affettuosa adorazione, diventa veicolo di corrotta ostentazione. Lo abbiamo visto nei giornali, con l’inchino della Madonna davanti la casa di un capomafia. Questo non va, non va assolutamente”.
Palumbo è studioso del Mediterraneo. “La questione vera – scrive Elisabetta Moro sulla Lettura di domenica 28 giugno recensendo il libro – è che sembra ci sia una contrapposizione tra la religione, con i suoi valori assoluti, uno per tutti l’inviolabilità della vita, e dall’altra parte una sorta di comodato d’uso della religiosità, esercitato da mafia, camorra e ‘ndrangheta, per costruire consenso politico. Per ostentare una muscolarità che serve a sottomettere, anche da un punto di vista simbolico, chi non è disposto a piegare né la schiena né le immagini sacre”. I due recensori concordano: l’antropologo sottrae la pratica dell’inchino al dato folkloristico ammissibile, non lo reputa un retaggio della civiltà contadina, quanto un atto di forza tanto simbolico quanto reale, concreto, da parte delle mafie. L’inchino di una processione quindi non è folklore, è gesto politico, sociale.
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