di Antonio Salvati
Carlo Cottarelli, professore universitario e economista italiano, è diventato di recente noto personaggio pubblico. Pochi mesi fa è uscito il suo ultimo volume, Pachidermi e pappagalli. Tutte le bufale sull’economia a cui continuiamo a credere (2019, Feltrinelli pp. 264, € 16) con l’obiettivo di confutare gran parte delle “bufale” che circolano nell’opinione pubblica in campo economico. L’idea di fondo, da cui trae fondamento il contenuto del libro, è che sarà senz’altro vero che l’economia non è una scienza esatta, ma da qui a sostenere che si possa credere a tutto e al contrario di tutto, ce ne corre. La realtà è sempre molto diversa e più complessa di come ci viene rappresentata o narrata.
In un paese ancora pieno di analfabeti funzionali, il rischio di accontentarci di idee e convinzioni semplicemente popolari, di luoghi comuni capaci di raccogliere facile consenso, oppure di valutazioni diffuse ad arte da chi ha interesse a strumentalizzare la cosiddetta pubblica opinione, è più che fondato. Non è semplice distinguere – in un tempo in cui imperversano una cultura dell’incompetenza e della superficialità, e in cui le fake-news, sono all’ordine del giorno – il vero dal falso, e, soprattutto, saper discernere l’eventuale parte di verità che c’è in una falsità e la menzogna che c’è in ogni comune convinzione. Il libro – il cui titolo riprende il titolo di una famosa canzone del 2017 di Francesco Gabbani, il cui testo ironico e di sagace satira prende di mira la diffusione di notizie inventate, inesistenti, oppure assolutamente improbabili – ha il pregio di possedere uno stile divulgativo e lineare, semplice pur trattando una materia per tanti versi complicata e certamente non accessibile a tutti. Cottarelli – attraverso una pacata argomentazione, fatta di storia, esperienze, testimonianze, riscontri oggettivi e riferimenti accademici – analizza una lunga serie di false e diffuse opinioni in campo economico, smontandole con metodo sistematico e scientifico e dimostrandone l’infondatezza o l’inconsistenza.
C’è un elemento comune che contraddistingue le numerose bufale evidenziate da Cottarelli, ossia quello di dare perennemente la colpa a qualcun altro dei problemi che non solo sono molto diffusi nella società italiana, ma attribuibili a nostre precise responsabilità. Chi sono invece coloro a cui si dà la colpa? L’Europa, i poteri forti, i tecnici, Soros, e così via. Un modo palese per negare che determinati problemi economici sono nostri, li avremmo dovuti risolvere e non l’abbiamo fatto. Spesso i sovranisti sostengono “i dati parlano da soli”, senza ammettere replica. No, non parlano da soli. I dati vanno presentati – spiega Cottarelli – in modo corretto, vanno interpretati, vanno letti nel contesto giusto, altrimenti possono essere utilizzati per “provare” fatti non veri. Il comun denominatore degli autori delle bufale è di far credere che le cose siano più semplici di quello che sono. Agli occhi dei non esperti, le cose semplici sono sempre quelle più convincenti. Per questo le bufale utilizzano argomenti, prove, dimostrazioni semplici, immagini più che parole, riscuotendo grande successo. Spessissimo i produttori di bufale fanno credere che un certo evento economico possa avere una sola, semplice causa. In economia, come in tante altre aree soprattutto nel campo delle scienze sociali, i fenomeni hanno invece diverse cause.
Numerose le fake news prese inconsiderazione: ci sono i pregiudizi sulle banche, che non prestano soldi perché se li vogliono tenere e che ci è toccato salvare con 60 miliardi di soldi pubblici. Ci sono le invenzioni sui tecnocrati, incapaci e corrotti, che ci hanno fatto entrare nell’euro a un cambio sbagliato. Ci sono quelle sulle pensioni, secondo cui i problemi del nostro sistema previdenziale non derivano dall’invecchiamento della popolazione e dal crollo delle nascite, ma dalla perfidia di qualche ministro dell’austerità. E poi ci sono le bugie sull’Europa e sul complotto dei poteri forti, oscure potenze nordiche che vogliono affamare i Paesi mediterranei. Mi soffermerò brevemente su quelle relative alle pensioni
È forte la percezione che in passato le manovre di aggiustamento dei conti pubblici abbiano penalizzato i pensionati, ossia, che a pagare il conto siano sempre i pensionati o che i pensionati siano il bancomat del governo. Percezione alimentata dalle ripetute riforme che dal 1995 (dalla riforma Dini) hanno prolungato l’età lavorativa e ridotto i benefici pensionistici (per esempio, per il calcolo della pensione, col passaggio dal metodo retributivo al meno generoso metodo contributivo) per contenere l’aumento della spesa derivante dalle pressioni demografiche (l’aumento della speranza di vita e il calo della natalità). Tuttavia, nel corso degli anni, però, la spesa per le pensioni è comunque sempre aumentata, crescendo di 5 punti percentuali di Pil tra la fine degli anni ottanta e il 2017.
In ogni caso, precisa Cottarelli «queste misure di riforma hanno quasi esclusivamente riguardato i benefici per i lavoratori che non erano ancora pensionati, non chi era andato già in pensione, i cui “diritti acquisiti” non potevano essere toccati. In realtà, nel corso degli ultimi anni le misure prese dai vari governi per contenere la spesa per le pensioni già erogate sono state limitate a due aspetti. Il primo è la riduzione degli aumenti per adeguare le pensioni al costo della vita, il blocco (parziale) della cosiddetta “perequazione”, il termine usato nel gergo pensionistico per indicare l’indicizzazione delle pensioni ai prezzi. Il secondo riguarda il taglio delle pensioni al di sopra di un certo livello, le cosiddette “pensioni d’oro” (quelle che contengono il “regalo” maggiore implicito nel contributivo), attraverso l’imposizione di vari contributi di solidarietà realizzati con diverse modalità».
Sia in termini relativi sia in termini assoluti, negli ultimi anni le condizioni del pensionato medio sono migliorate, e non si può certo dire che a pagare siano stati sempre i pensionati come gruppo. Spiega Cottarelli che nonostante il fatto che la nostra speranza di vita sia tra le più elevate al mondo, l’età effettiva di pensionamento, non quella teorica, ma quella effettiva, è stimata essere più bassa della media degli altri paesi: «secondo l’Ocse, per chi ha 65 anni, la speranza di vita è di 22,9 anni per le donne e 19,4 anni per gli uomini. Insomma, andando in pensione a 65 anni, si percepirebbe una pensione per circa 23 anni in media per le donne e 19 e mezzo per gli uomini. Per le donne la speranza di vita è la quarta più alta tra i paesi dell’Ocse (e, visto che questi sono paesi relativamente avanzati, è probabilmente la quarta più alta nel mondo) e la quinta più alta per gli uomini (al primo posto per le donne c’è il Giappone, con 24,4 anni, e per gli uomini la Svizzera, con 20 anni). Per riferimento, negli Stati Uniti la speranza di vita a 65 anni è di 20,6 anni per le donne e 18 anni per gli uomini.6 Insomma, in media siamo messi bene, anche se ci sono differenze importanti per regione e grado di istruzione (torneremo su questo punto nell’ultima sezione del capitolo)».
Secondo dati Ocse (l’ultimo si riferisce al 2016), in Italia l’età effettiva di pensionamento è di 62,1 anni per gli uomini e di 61,3 anni per le donne. Queste età sono di 2-3 anni più basse delle età di pensionamento effettivo per la media Ocse sia per gli uomini (65,1 anni per la media Ocse) che per le donne (63,6 anni). Combinando i dati della speranza di vita con quelli dell’età effettiva di pensionamento per stimare, paese per paese, gli anni attesi di durata del pensionamento si evince che in termini di durata attesa di pagamento della pensione siamo al terzo posto nel mondo (dopo Francia e Belgio), con 25,6 anni per le donne e al secondo posto nel mondo con 21,8 anni per gli uomini (dopo la Francia). Insomma, almeno secondo i calcoli dell’Ocse, siamo ai primi posti nella classifica della durata del periodo medio di pagamento delle pensioni. Queste considerazioni vanno inquadrate all’interno delle feroci polemiche sulle pensioni, sulla Fornero, su quota 100.
Le bufale economiche sono – sostiene Cottarelli – «come tasselli di un gigantesco puzzle che contiene una “narrativa”, una “storia” semplice e potente che può essere usata per convincere l’opinione pubblica della necessità di rigettare certi valori e muoversi verso una diversa direzione politica, una direzione che sembra nuova ma che in realtà finirebbe per replicare quelle politiche che hanno generato i problemi economici vissuti dall’Italia nell’ultimo quarto di secolo». La potenza di queste narrative e di una propaganda che le utilizza a fini politici non deve essere sottovalutata. Si tende spesso a pensare che i fenomeni economici, politici e sociali siano spiegabili in termini di cause oggettive. Probabilmente i fattori oggettivi restano essenziali, «ma il ruolo svolto dalle narrative nel causare, e non solo nell’accentuare, comportamenti economici non è certo irrilevante, come sostenuto da diversi lavori pubblicati negli ultimi anni da economisti e sociologi».