di Giuseppe Costigliola
“Ricordo bottiglie di birra vuote in mezzo alle matasse di cavi delle televisioni. Ricordo il candidato democratico che ballava sul palco, come una rockstar. Anche questa era una narrazione. La sensazione era di vivere un momento storico di decadenza”.
Questa visione bruciante della realtà postmoderna in cui viviamo è della grande scrittrice, giornalista e sceneggiatrice statunitense Joan Didion, e la si trova nel suo libro Finzioni politiche (Il Saggiatore, traduzione di Sara Sullam, 23 Euro). Limpido esempio del cosiddetto New Journalism, lo stile giornalistico nato negli anni Sessanta negli Stati Uniti e via via affermatosi, grazie all’opera di maestri quali Tom Wolfe, Norman Mailer e Truman Capote, il volume raccoglie dei reportage apparsi originariamente sulle pagine della New York Review of Books, che nel 1988 incaricò la Didion di seguire la campagna presidenziale da una costa all’altra dell’America.
Si tratta di libro davvero illuminante, d’una luce che ferisce. Studiando da vicino i meccanismi elettorali del partito democratico e di quello repubblicano, con sguardo chirurgico l’autrice coglie le reali dinamiche che strutturano la politica, i perversi intrecci che essa crea con i media per la costruzione del consenso, lo scollamento con la realtà che la caratterizza.
La Didion batte come un segugio ogni angolo nascosto di quell’immensa fiera, ne svela le falsità, le imposture, le aberrazioni, gli aspetti grotteschi: porta allo scoperto tutto ciò che sfugge all’elettore comune. Nel viaggio di scoperta in un’America ingannevole e sfuggente, cronicamente idealizzata e modellata sull’immortale Sogno Americano, ella s’imbatte in scandali, in crimini di guerra, in colpi bassi, in clamorose topiche, in un imbarazzante vuoto morale e di contenuti che accomuna le macchine dei due partiti che si spartiscono il potere.
Si mettono così a fuoco le campagne elettorali itineranti, veri e propri giganteschi set cinematografici dagli ingentissimi costi, con una precisa gerarchia interna: attori, registi, responsabili del copione, macchinisti, un ambiente caratterizzato “dall’isolamento, dall’arroganza, dal disprezzo per il mondo esterno”.
La politica americana assume le forme di una grande fucina hollywoodiana di narrazioni posticce, del tutto slegate dalla vita reale del Paese. Le campagne elettorali sono un baraccone circense dove il quotidiano e la verità non trovano posto, un mondo favolistico allestito da figure che operano nell’ombra, individui astuti e spregiudicati, manipolatori della realtà: gli speechwriters e i campaign managers, che costruiscono l’immagine “vincente” del candidato, dettando concetti, tempi e forme per creare una mitologia da propinare agli elettori. Costoro sono il motore pensante di un “sistema”, una classe autogenerata e autoreferenziale: “una specie di nuova élite manageriale”, costituita da individui “che tendono a parlare del mondo non per come è ma per come, secondo loro, lo immagina la gente”. Si tratta di un sistema assolutamente antidemocratico, basato su “un meccanismo altamente specializzato e quindi accessibile solo ai professionisti, a chi detta la linea politica e a chi la comunica, a chi fa i sondaggi e a chi li cita, a chi fa le domande nei talk show della domenica sera e a chi vi risponde, ai media consultants, agli editorialisti, agli esperti e ai consulenti, a chi offre colazioni da microfoni spenti e a chi le frequenta; a quel manipolo di insider che, anno dopo anno, scrivono la narrazione della vita pubblica”.
Attorno a questi allestimenti scenici ruota la travelling press, la stampa che viaggia al seguito dei candidati e copre mediaticamente le primarie: giornalisti disposti “a trasmettere le immagini che le loro fonti desiderano siano trasmesse”, proni a raccontare come “un dato di fatto” le finzioni che l’una o l’altra campagna vogliono raccontare, ricompensati con scambi di “contatti”, viaggi e conferenze pagate, inviti ai talk show domenicali, e spesso a Washington.
La Didion si sofferma poi sui modi in cui il potere viene tramandato, analizza come venne creato il mito di Reagan (ovviamente distante anni luce dalla realtà dell’uomo: ne delinea la figura di un presidente burattino), ricostruisce lo scandalo con cui nel 2000 George W. Bush vinse le elezioni presidenziali per una manciata di voti in Florida, mette in luce il programma con cui Clinton si aggiudicò il mandato nel 1992, “Putting People First”, sottolineandone la peculiare fumosità ed evasività, “un taglia e cuci di discorsi e documenti di posizione” che quasi mai scendevano nello specifico, che “non dava alcuna indicazione su come far quadrare i conti”.
Il punto di approdo di questa esperienza di iniziazione alla politica è drammatico: l’autrice comincia a dubitare dell’esistenza del bipartitismo americano, giunge a temere che “scrivere di politica sia in un certo senso un’impresa di Sisifo”. Le è dolorosamente chiaro che la presunta “scelta” offerta ai cittadini è soltanto una narrazione creata a tavolino da quel sistema, gestito “da una classe politica ormai congelata” verso la quale i cittadini intrattengono “una relazione di vassallaggio”: in questa fiera dell’immaginario, ogni differenza politica tra i partiti in lotta per il potere sfuma. Progetti politici e programmi di governo si riducono a concetti insipidi e predigeriti, ad un moralismo da talk show: tutti dicono la stessa cosa, tutti propinano agli elettori la stessa poltiglia indigeribile.
Tutto ciò è reso con voce cruda e intensa, piena di humor tagliente ed acre, pregna d’uno sdegno che acuisce il senso critico, una voce coraggiosa che porta alla luce la cancrena d’un mondo che non è solo americano: le dinamiche descritte sono da tempo parte dell’intera politica occidentale. Evidenti sono le similitudini che il lettore riscontrerà in queste pagine con la situazione italiana, con le carnevalate dei nostri buffoni e delle loro corti, le montagne di falsità e le fetide idiozie di cui ci inondano i politici nostrani: viviamo in una scervellata globalizzazione di riti, forme, in-culture, una costante messa in scena dove scientemente si abdica alla risoluzione dei problemi, in cui ogni legame con la realtà è reciso.
Sì, in quell’immagine di bottiglie di birra vuote, di matasse di cavi televisivi, d’un candidato che grottescamente si dimena su un palco come una rockstar, è davvero condensata la tragica decadenza d’un mondo intero, che noi, tragicamente, accettiamo.