Da Simone Pollo, docente di Filosofia morale all’Università di Roma La Sapienza, riceviamo questo contributo sulle implicazioni di ordine politico che nascono dai limiti di libertà adottati da governo e necessari per ridurre il rischio di malattia e contagio di tutti.
di Simone Pollo *
A causa dell’epidemia di coronavirus e delle misure adottate dal Governo per il suo contenimento, la nostra Repubblica sta vivendo la più seria emergenza della sua storia.
A caratterizzare questa situazione c’è anche una limitazione delle libertà personali che non ha precedenti, neppure ai tempi del terrorismo. A ogni cittadino italiano è oggi chiesto di limitare i propri spostamenti allo stretto indispensabile e di adeguare i propri comportamenti a una serie di regole. Molti luoghi e attività consuete per la nostra quotidianità sono vietate o fortemente sconsigliate.
Non intendo qui discutere dei dispositivi giuridici che sono stati utilizzati per realizzare queste limitazioni e neppure voglio esaminare il razionale scientifico che le ispira. Ciò che intendo fare è svolgere una breve riflessione su un tema etico-politico che è sollevato da tale situazione, nella convinzione che, per quanto necessaria possa essere considerata tale situazione, non debba mai venire meno la riflessione critica all’interno dello spazio pubblico democratico.
Misure prese per ridurre i rischi per ogni cittadino
Le misure prese per governare e limitare i danni dell’epidemia sono intese a ridurre il rischio che ogni singolo cittadino italiano venga infettato dal virus e, conseguentemente, possa tanto ammalarsi quanto trasmetterlo ad altri. Per quanto la letalità del Covid-19 sia, pur con stime variabili, piuttosto bassa e concentrata su individui appartenenti alle fasce più anziane della popolazione e quasi sempre in presenza di condizioni patologiche pregresse e concomitanti, il diffondersi dell’epidemia potrebbe mettere in difficoltà (anche molto seria) le risorse sanitarie della nazione. Il rischio che ciò accada viene valutato secondo strumenti scientifici che appartengono alla statistica e all’epidemiologia.
In questo momento, quindi, in Italia si è valutato che c’è un pericolo che deve essere evitato (il sovraccarico delle risorse sanitarie) a tutela di un bene (la vita dei cittadini italiani) e l’analisi del rischio ha condotto a delle misure fortemente restrittive della libertà personale dei cittadini. Queste misure hanno una ricaduta non solo sulle vite personali, ma anche su una serie di pratiche e di istituzioni sociali, quali il lavoro, l’istruzione, la vita culturale e così via, che sono oggi fortemente rallentate (se non “congelate”). Una volta finita l’emergenza, ciò comporterà costi non indifferenti.
Il “rischio” entra nella vita sociale
C’è in questa situazione una questione che credo sia opportuno evidenziare e che merita riflessione. Si tratta del modo in cui si interpreta la nozione di “rischio” all’interno di un contesto democratico. Il rischio, così come è al centro delle attuali decisioni, sembra essere inteso massimamente come una nozione schiettamente scientifica. Essa è fatta oggetto di misura all’interno di modelli statistici e matematici. Tale nozione, tuttavia, quando entra nella vita sociale, ovvero nel discorso pubblico e attraverso di esso nelle nostre vite individuali, cessa di essere un mero dato (lasciando da parte la questione di cosa sia un dato per la scienza e fino a dove possa ambire l’oggettività scientifica).
Il rischio è qualcosa che si lega a una serie di emozioni fondamentali degli esseri umani e la sua percezione non solo può variare da individuo a individuo, ma si lega all’organizzazione e all’assiologia che ognuno di noi dà di alcuni beni fondamentali (salute, libertà, relazioni ecc.). In una società liberale e democratica si assume per inviolabile l’idea che ognuno sia libero organizzare in modo autonomo i propri beni fondamentali e attribuire ad essi pesi diversi (ad esempio, rischiando di accorciare la propria vita per tutelare altri beni e interessi).
Un’emergenza anche per il vivere democratico
In una situazione come quella attuale si rivela in modo parossistico qualcosa che caratterizza strutturalmente la vita individuale sotto un governo, ovvero che quella pluralità di organizzazioni personali sia talora irregimentata e non lasciata libera di esprimersi. La cifra della democrazia è che tali limitazioni siano minimali e abbiano una forte giustificazione pubblica legalmente garantita.
Quello che sta accadendo in questi giorni è una situazione di emergenza non solo per la salute (individuale e pubblica), ma anche e forse di più per la democrazia. Non nel senso che la democrazia in quanto assetto istituzionale sia al momento a rischio, ma nel senso che ciò che è in opera oggi contraddice (pur se per motivi giustificati) l’ethos liberale e democratico nel profondo, vincolando le vite personali e le libere associazioni a una sola concezione del rischio e dei beni in gioco.
Nella speranza che tale situazione di eccezione termini quanto prima, è auspicabile che l’importanza e la profondità di tale ferita siano presenti a tutti, non solo ai governanti ma anche (e forse soprattutto) ai cittadini.
* Professore associato di Filosofia morale, Dipartimento di Filosofia, Università di Roma La Sapienza