di Rock Reynolds
“America First”. Prima l’America. D’accordo, è uno slogan elettorale tramutato in vessillo politico da un’amministrazione che ha spazzato via lo “Yes, we can” di Barack Obama, ottimista ma non sufficientemente patriottico, per fare leva sul sempreverde orgoglio a stelle e strisce. Eppure, gli Stati Uniti d’America sono un paese nel quale anche decisioni importanti – talvolta, persino strategiche – vengono fortemente influenzate dai moti di stomaco della gente. L’America che si autodefinisce America, con buona pace delle altre decine di Stati del medesimo continente, è quel paese che ha pure il vezzo di autonominarsi “the land of the free”, la terra degli uomini liberi, mantra santificato dal suo inno nazionale.
Certo, quale inno nazionale non esalta lo spirito patrio, l’orgoglio nazionalista e il coraggio e l’altruismo dei suoi cittadini? Ma lo “Star Spangled Banner” si traduce in una quotidiana glorificazione dei valori comuni nei luoghi di lavoro, nelle arene sportive, nelle piazze, nei discorsi da bar, addirittura nelle chiese. Peccato che, a quasi 250 anni dalla nascita del paese, quella pacificazione razziale che, a fatica, si sta tentando di realizzare con la minoranza afroamericana erede degli schiavi che il paese hanno contribuito ad avviarlo e a consolidarlo, sia ben lontana dall’essersi compiuta: finché gli Stati Uniti non faranno seriamente i conti con l’annientamento fisico e culturale dei popoli nativi, tale processo resterà inconcepibile.
Tomahawk – Trent’anni di guerre nelle pianure (Odoya, pagg 246, euro 18,00) di Paul Wellman non è un saggio storico su quello che, a tutti gli effetti, è stato un genocidio, bensì, piuttosto, il resoconto di un trentennio di guerre sanguinose (1862-1891) che, di fatto, hanno sancito la fine delle popolazioni indigene degli USA, ma che non è stato altro che il culmine di un lento massacro iniziato quando i Padri Pellegrini della Mayflower sbarcarono sulle coste dell’odierno Massachusetts. Tomahawk, concentrandosi sugli elementi militari e non tanto su quelli culturali dello scontro tra la civiltà indigena, legata alla terra e al succedersi delle stagioni, e quella degli arrembanti coloni di origine europea, sostenuti dalla forza militare, dalla sete di ricchezza, dalla voglia di costruirsi un futuro e, pure, dalla incrollabile convinzione di essere dalla parte giusta della storia, quella benedetta da Dio, contribuisce a sfatare falsi miti e a ripristinare alcune verità storiche.
“In God we trust”, in Dio riponiamo la nostra fiducia, è l’altro slogan su cui un intero paese ha posto le basi del successo planetario di cui gode tuttora. E quel Dio avrebbe certamente chiuso un occhio se, per diffondere la sua parola, il colono avesse retto la Bibbia con una mano e il fucile con l’altra. Ecco spiegata la resilienza degli stessi coloni, il loro pervicace aggrapparsi all’idea che quell’enorme paese era loro per diritto divino, come l’ampia iconografia popolare di film e romanzi western ha raccontato.
Ma gli “indiani” d’America non sono rimasti sempre con le mani in mano, cosa che viene sottolineata con lucidità nelle pagine di questo saggio semplice da leggere ma ugualmente appassionante sia per le storie raccontate (alcune delle quali si sono ammantate di leggenda nel corso dei decenni) che per il romanticismo che talvolta trasmette. In fondo, come molte altre popolazioni native del pianeta, anche gli indiani d’America erano estremamente passionali ed emotivi. Ma non lasciamoci ingannare dal classico mito del buon selvaggio. I grandi capi di cui Paul Wellman ci racconta le imprese erano un concentrato di diverse qualità: astuzia, valore, onore, strategia, pragmatismo, le doti, insomma, di un vero leader sul campo. Wellman ne sottolinea un’abilità militare che, in alcuni casi, faceva invidia ai grandi strateghi usciti dall’accademia di West Point e che tali strateghi seppe mettere in grande difficoltà.
I protagonisti di questo libro sono nomi in larga parte noti al grande pubblico: Nuvola Rossa dei Sioux Oglala (forse il capo più carismatico di tutti), Cavallo Pazzo e Toro Seduto, Naso Aquilino, (il gigante Cheyenne ritenuto invincibile per il copricapo magico che indossava), Capo Giuseppe dei Nasi Forati (che condusse la sua tribù in una fuga rocambolesca verso il Canada che si fermò a poche decine di chilometri dal confine, a prezzo di sofferenze indicibili e dopo aver tenuto in scacco alcuni prestigiosi contingenti dell’esercito statunitense). Ma Tomahawk è soprattutto una storia di uomini contrapposti, di culture in antitesi, di sistemi bellici quasi mai sovrapponibili, di immani violenze da una parte e dall’altra e di grandi scontri che segnarono il corso della storia.
Il “massacro di Sand Creek”, carneficina immotivata di donne, bambini, vecchi e qualche guerriero Cheyenne e Arapaho, fu in un qualche modo all’origine di un altro massacro a parti invertite, quello del celebre “Little Big Horn”, dove un reparto di cavalleria agli ordini del generale Custer, narciso e arrogante, venne spazzato via da una delle più grandi armate indiane mai messe insieme, ai comandi di Toro Seduto. E chi non ha mai sentito parlare di “Wounded Knee”, una delle macchie più imbarazzanti sulla coscienza del popolo americano, un eccidio del 1890 a sua volta del tutto immotivato, un simbolo per i Lakota che ne hanno fatto una sorta di luogo sacro?
Non mancano gli esempi di prodezza e coraggio in battaglia così come gli episodi di violenza efferata e insensata su entrambi gli schieramenti. Ma la cosa quasi immancabile è la conclusione di ogni campagna militare con la sconfitta dei nativi, costretti alla resa dal governo di Washington e quasi sempre vittime di inganni pesantissimi. Chi abbia avuto modo, per esempio di visitare il confine tra Wyoming e South Dakota, probabilmente avrà toccato con mano cosa abbia voluto dire per i Lakota-Sioux essere spostati dai sacri territori di caccia delle Black Hills alle lande desolate e improduttive della riserva di Pine Ridge, accanto al parco nazionale delle Badlands: dal paradiso all’inferno in poche decine di miglia.
Oggi sappiamo cosa abbia significato l’istituzione delle riserve indiane: per gli Stati Uniti è equivalso a spazzare la polvere sotto il fatidico tappetino della storia. I nativi continuano a rivendicare la terra insanguinata che gli è stata strappata dai visi pallidi e lo statuto speciale di cui le riserve godono è lo zuccherino per indorare la pillola: famiglie disgregate, alcolismo e tossicodipendenza, violenze. Ecco il frutto di una semina amara, ma forse bisognerebbe leggere qualcosa d’altro per integrare le interessanti storie raccontate da Paul Williams in Tomahawk.
Per il momento, basta ricordare le parole di quello che fu considerato il “Napoleone indiano”, Capo Giuseppe, prima di arrendersi ai bianchi: “Sono stanco, il mio cuore è malato e triste. A cominciare da dove ora è il sole, io non voglio più combattere”.