“La vita nel cratere è questa, non si sa niente”. Eppure si resiste. Il “cratere” è quello del terremoto del Centro Italia del 2016 con “coda” nel 2017: una devastazione dimenticata dai più. Firma l’amara constatazione il giornalista Mario Di Vito nel libro reportage “Dopo. Viaggio al termine del cratere: la storia infinita di un terremoto negato” pubblicato in formato pdf ed epub come primo prodotto editoriale dall’osservatorio di fotografia online Lo stato delle cose: “dal 21 aprile 2017 raccoglie oltre 20mila immagini e centinaia di reportage di documentazione a L’Aquila, nel Centro Italia e nelle altre Italie ferite dal terremoto, realizzate da circa cento fotografi italiani”.
Il libro si può scaricare gratuitamente on line cliccando qui. Su gentile concessione dell’Osservatorio pubblichiamo il capitolo conclusivo del reportage tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo che Silvia Ballestra, scrittrice di origini marchigiane, nella prefazione descrive così: «Questo libro parla del dopo, che è un infinito durante. Un dopo in cui continua a succedere di tutto o forse niente. Un dopo in cui rimangono pochi a raccontare perché raccontare ancora e ancora è faticoso e sembra di ripetersi e ripetere storie di “un Paese senza” che di terremoti ne ha visti tanti e spesso ti sembra che non ci sia nessuno ad ascoltare questi racconti».
In primavera “Dopo. Viaggio al termine del cratere” uscirà in versione cartacea anche nelle librerie per Poiesis Editrice. I diritti d’autore, avverte l’osservatorio, “saranno completamente devoluti alla rinascita socioculturale delle comunità ferite dal terremoto”. Di Vito scrive per il quotidiano “Il Manifesto”, è autore di romanzi e documentari.
Di Vito: La vita nel cratere è questa, non si sa niente
Questa non è una canzone d’amore (Epilogo)
“Come va?”
“Non lo so”
“Fa freddo oggi, per essere marzo, non trova?”
“Non lo so”
“Vuole un caffè?”
“Non lo so”.
Parlo con un vecchio seduto dentro un bar ad Acquasanta Terme. È marzo, dal terremoto è passato un anno e mezzo. Berretto calato sugli occhi, sguardo fisso tendente al basso, barba bianca, pantaloni beige a coste e un giaccone viola imbottito grande almeno due taglie più del necessario, questo signore non dà l’idea di voler essere il mio nuovo miglior amico.
È un burbero, e risponde “Non lo so” a tutte le domande che provo a fargli. Non vuole che qualcuno gli attacchi il bottone.
Faccio un cenno di rinuncia con la testa, lascio gli spicci per pagare il caffè sul bancone, saluto il barista e faccio per uscire.
“Già vai via?”, mi richiama il burbero.
Sorride adesso. Sorrido anche io. Ogni cronista sa che chi ha qualcosa da dire non vede l’ora di dirla. Per noi vanagloriosi cacciatori di storie, certe persone sono preziose come l’acqua durante una traversata del deserto.
Sono stato fortunato.
Forse.
Così il burbero mi racconta che lui non se n’è mai andato, che è restato in paese anche quando le scosse si erano fatte devastanti, quando la neve ha ricoperto tutto, quando nessuno al posto suo l’avrebbe fatto. Mi racconta che la gente è scappata, poi è timidamente tornata. Qualcuno. Altri no. Dice che tanto a lui gli è rimasto poco da vivere – non sembrerebbe, ma tant’è -, e che però gli dispiace per chi resterà. Dice che passa le giornate al bar, legge il giornale, fa quattro chiacchiere – “ma solo con chi non fa domande stupide” -, passeggia un po’ e poi torna a casa.
“Ma casa tua non è stata danneggiata?”, gli domando.
“Sì, va be’, e allora?”, mi risponde tornando al suo iniziale tono burbero. Ho fatto una domanda stupida, probabilmente.
“Ma non ti hanno detto niente”, insisto io, con la sensazione di star rischiando brutto.
Lui sospira e accenna a un sogghigno. “Sì, ma tanto non fa niente. Non succede niente qui. Non si sa niente. Tanto vale…”
La vita nel cratere è questa. Non si sa niente. Quella che una volta era vita adesso è un ricordo che continua a sbiadire.
Passano le stagioni, i governi, i commissari, i giornalisti. Passano i potenti e i notabili, i capi di stato stranieri. Passano i turisti, i curiosi, i viandanti.
Passa il desiderio di farcela. Passa la speranza. Passa tutto. È tutto passato e niente futuro, qui.
Le forze sembrano mancare, i sospiri sono sempre meno profondi, negli occhi dei terremotati c’è ormai quasi solo rinuncia.
Qui tutti appaiono come soldati sperduti nel campo di battaglia, di quelli che si aggirano disperati maledicendo il giorno in cui è cominciata la guerra. Fuori ci sono i generali, troppo preoccupati di dover vincere la guerra per tenere conto delle perdite.
Quello che si vede è desolante, quello che si ascolta è disperazione pura.
È tutto tremendamente difficile. Appunto, emergono solo le singole storie, che però troppo in fretta diventano da cronaca, oggetto della speculazione di questo o di quel politico, e le cose sembrano destinate ad andare sempre peggio.
Eppure.
Eppure le persone resistono. A tutto. C’è un tratto di eroismo nella vicenda di un popolo intero che è stato cacciato di casa dal terremoto e che però prima o poi tornerà. L’apnea della distanza, «la mancanza che è un assedio», la terra che trema, la natura che travolge, la burocrazia che avvolge, le parole parole parole, il lutto e lo sconforto. Soli contro tutti, qui nessuno ha intenzione di mollare.
Perché il senso è sempre lo stesso.
Resistere. Sperando che serva a qualcosa.