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Come sapeva De Mauro, la Costituzione dice rispetto per tutti

La Carta è la nostra profezia democratica: in questo intervento in ricordo del linguista lo spiega Walter Tocci. Dove rimarca che non abbiamo ancora lo ius soli

Come sapeva De Mauro, la Costituzione dice rispetto per tutti
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25 Gennaio 2018 - 17.48


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Walter Tocci

 

Il 5 gennaio 2017 moriva a 85 anni Tullio De Mauro, linguista sensibile ai temi civili, di educazione, formazione e di politica culturale ed è stato anche ministro all’Istruzione. A un anno dalla sua scomparsa, si è tenuto giovedì 25 in Senato il convegno su “I diritti linguistici nella Costituzione”. Lo ha introdotto Walter Tocci, senatore Pd, componente della Commissione istruzione e beni culturali di Palazzo Madama, direttore del Centro per la riforma dello Stato. Pubblichiamo quasi integralmente il suo intervento

 

 

È passato un anno senza Tullio De Mauro. Quanto ci manca? Come ci manca? È sempre presente nel ricordo l’opera intellettuale, l’impegno civile e la generosa umanità. Il suo insegnamento consegna alla nostra responsabilità il cercare ancora nuove vie di pensiero e di azione.

Così, ci è sembrato appropriato ricordarlo in questo convegno che riprende punti essenziali della sua attività: la lingua, la Costituzione e la scuola qui rappresentata dagli studenti del liceo Augusto, che saluto e ringrazio per la presenza.

[…]

Questa sessione ha un titolo apparentemente semplice ma denso di questioni: “La lingua e le lingue nella Costituzione”. Nella congiunzione del singolare e del plurale si avverte la tensione tra la funzione e la natura della lingua: nell’uso assicura l’unità tra i parlanti, ma in sé alimenta l’infinita differenza degli idiomi nella storia e nella geografia. De Mauro ci ha insegnato a scrutare questo doppio movimento – l’aspirazione all’unità e il riconoscimento della molteplicità – che ritroviamo anche nella Costituzione, nella stessa forma ma con significato diverso. La legge fondamentale promuove l’eguaglianza nella società e garantisce la differenza nella libertà. La Carta è il discorso tra i cittadini e la Repubblica, è la lingua giuridica che consente a persone diverse di riconoscersi e di realizzare opere comuni. Nel titolo della nostra sessione, quindi, sono preziose proprio le parole più piccole e meno appariscenti: la e congiunge singolare e plurale della lingua, mentre la preposizione nella ci svela che tra lingua e Costituzione esiste un’intima relazione, il cui significato dipende in gran parte dal ruolo che in essa svolge la lingua.

Se è intesa in quanto oggetto della relazione, si mette in evidenza come la Carta si occupa esplicitamente dell’argomento e viene in primo piano l’articolo 6: La Repubblica tutela le minoranze linguistiche. Ne parleremo nella seconda parte del convegno.

Se invece la lingua è intesa come soggetto della relazione, la riflessione si orienta su come la Carta parla alle cittadine e ai cittadini del nuovo secolo. E allora viene in primo piano, proprio come l’ha studiata De Mauro, la lingua della Costituzione, le parole e i significati tanto semplici quanto profondi. Certo, conosciamo la cura dei costituenti per la forma e il compito di rischiaramento che assegnarono ai più competenti tra loro, fino a perfezionare una sorta di breviario giuridico per l’uomo comune, come lo definisce il presidente della Corte Paolo Grossi. Eppure non può essere solo una questione di stile; se la Carta parla ancora a noi – e ne abbiamo avuto conferma nella grande partecipazione al referendum, pur con una radicale differenza di posizioni – ci sono ragioni più profonde che attengono alla lunga durata. È la dimensione temporale tanto trascurata dalla pretesa di risposte immediate, che spesso abbiamo cercato nella Costituzione solo perché non sapevamo darle con la legislazione ordinaria. Ma è proprio la lingua che rivela la Costituzione come una tipica opera classica, capace cioè di rappresentare un tempo passato e di ravvivarlo nel presente e nel futuro.

Non è solo la legge della Repubblica, è il capolavoro italiano del Novecento, con la sintesi di un’epoca che solo i grandi capolavori sanno esprimere, come la Divina Commedia per l’età dei Comuni. Quei versi rappresentarono la nascita dell’italiano letterario delle classi colte che è rimasto per secoli una lingua di minoranza; la Costituzione ha accompagnato il passaggio all’italiano parlato dalla grande maggioranza del popolo.

Altro che invecchiata, solo oggi emergono i problemi e i conflitti che la rendono più necessaria di ieri. Piero Calamandrei ha parlato di un testo presbite in quanto capace di guardare lontano, e si potrebbe anche dire che la Carta è una sorta di profezia, una profezia democratica. Un messaggio che dalla tragedia della storia elabora la saggezza per l’avvenire. E infatti fu scritta da esuli tornati in patria, da rappresentanti di masse popolari da sempre escluse dal potere, da pensatori a lungo tenuti ai margini della cultura nazionale. Così nascono le profezie, quando a proporre la legge sono gli esclusi, quando si impone una nuova visione del mondo.

La lunga durata della nostra Carta è ancora tutta da scoprire. Solo quando la guerra si trasforma in presenza quotidiana, solo quando la bomba atomica torna a essere spauracchio collettivo, solo da quando siamo entrati senza saperlo nella terza guerra mondiale – come dice papa Francesco – solo nell’odierna banalizzazione del male si comprende davvero la portata profetica dell’articolo 11 e di quel verbo così carico di sdegno morale oltre che di cogenza giuridica: ripudiare la guerra, scrissero i costituenti, perché avevano davanti agli occhi il Paese distrutto, l’abisso morale dello sterminio degli ebrei, i lutti inconsolabili e le sofferenze indicibili. Con il verbo ripudiare lasciarono un monito per l’avvenire, un grido di speranza: MAI PIÙ QUESTO MALE.

Solo nell’epoca delle migrazioni scopriamo nell’articolo 3 un significato più impegnativo della parola dignità della persona. Era facile pronunciarla quando eravamo figli della stessa patria. Se invece siamo, e saremo sempre di più italiani con la pelle di colori diversi avremo bisogno di una più alta consapevolezza costituzionale. Pronunciamo a voce alta la parola dignità pensando agli 800 mila bambini e ragazzi che parlano cento lingue del mondo e che sono stati educati e accolti dagli insegnanti della scuola italiana, nonostante la penuria di risorse e le paturnie burocratiche. Già è più difficile, però, dire dignità quando si pensa agli insegnanti che non possono riconoscere quegli allievi come cittadini italiani, perché non abbiamo ancora approvato lo ius soli. Ancora di più, ci viene un groppo in gola pronunciando la parola dignità mentre continuano a morire nel Mediterraneo donne, bambini e giovani che fuggono dalle persecuzioni e dalla fame. E l’Europa ha voltato le spalle all’antico mare lasciando il campo alle guerre, alle dittature e alle violenze, come quella che ha martoriato il corpo di Giulio Regeni fino a renderlo irriconoscibile perfino alla madre. Oggi è il secondo anniversario della morte. Stasera una fiaccolata davanti a Montecitorio tornerà a chiedere la verità per Giulio, per la dignità della persona e per quella del paese intero.

Chi vuole sminuire la Carta dice che è inattuale, ma è proprio nella sua inattualità la forza del cambiamento. Essa è in conflitto con il presente perché contiene il meglio della nostra storia e le speranze per l’avvenire. L’inattualità della Costituzione interpella la nostra volontà di costruire la Repubblica come la definiva il presidente Pertini: una Repubblica forte, umana, equa e incorrotta.

 

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