di Lorenzo Lazzeri
Nel 2025, con Gaza ancora sotto le bombe, un volo charter pieno di palestinesi atterra in Sudafrica. Nessuno sa bene perché siano lì, nessuno ha documenti in regola, molti non sanno nemmeno di essere diretti a Johannesburg. La notizia passa veloce sui media italiani: evacuazione umanitaria andata male, forse. Poi il ciclo informativo va avanti, ma se si scava appena sotto la superficie, si scopre un esperimento di deportazione mascherata, condotto attraverso una sigla che non esiste se non sulla carta.
Al-Majd Europe si presenta come organizzazione umanitaria fondata nel 2010 in Germania. Il problema è che il sito compare solo a febbraio 2025, registrato tramite un servizio anonimo spesso citato nei report su frodi online. L’indirizzo a Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est, non corrisponde a nessun ufficio reale. Questo lo riferisce Haaretz (si tratta di una delle più influenti testate giornalistiche israeliane n.d.r.) che lo ha verificato, trovando solo un palazzo residenziale. Il telefono non risponde, le email rimbalzano, i dirigenti mostrati sul sito hanno facce generate dall’intelligenza artificiale, le foto dei “casi di successo” sono state rubate da reportage di altri giornali, non vi è traccia di progetti, bilanci e personale. È un involucro vuoto costruito per dare apparenza di neutralità a operazioni che nessuno Stato può rivendicare apertamente.
Le inchieste giornalistiche hanno cominciato a ricostruire cosa ci sia dietro. Compare il nome di Tomer Janar Lind, consulente con doppia cittadinanza israeliana ed estone, legato a società registrate in Estonia e negli Emirati. Haaretz scopre che lavora con una struttura nata da poco nel Ministero della Difesa israeliano, l’Ufficio per l’Emigrazione Volontaria un nome che ci dice già tutto. Ma quale volontarietà e rispetto a cosa? Se vivi sotto assedio, bombardamenti, senza lavoro né futuro? In queste condizioni, la differenza tra fuga e costrizione scompare.
I racconti di chi è partito confermano. Arrivano messaggi su WhatsApp da contatti sconosciuti che promettono una via d’uscita verso paesi terzi. Chiedono documenti dettagliati, alberi genealogici completi, contatti all’estero, informazioni su rapporti con ONG o l’Autorità Palestinese. Poi arriva la richiesta di denaro con cifre tra i 1.500 e i 5.000 dollari a persona, bambini compresi. Famiglie che vendono l’oro di casa o contraggono prestiti impossibili. Il pagamento in contanti, bonifici su conti privati, a volte perfino criptovalute. Niente che assomigli a una missione umanitaria di una ONG.
La partenza segue sempre lo stesso schema, con un avviso all’ultimo momento, un giorno prima. Istruzioni precise: solo uno zaino piccolo, un cellulare, pochi contanti. Un autobus li preleva nel sud di Gaza e li porta al valico di Kerem Shalom, e qui succede qualcosa di anomalo, i mezzi attraversano senza problemi, scortati dalle forze israeliane. Nessun timbro sui documenti, nessuna registrazione ufficiale. Come se quelle persone, nel momento esatto in cui passano il confine, cessassero di esistere per gli archivi. Dall’altra parte li aspetta l’aeroporto militare di Ramon nel Negev, imbarco da ingressi secondari, voli charter che decollano senza che nessuno sappia nulla.
Finora si contano almeno tre voli confermati. Il primo a maggio 2025 con 57 palestinesi verso Budapest, poi Indonesia e Malesia. Altri due tra ottobre e novembre, entrambi diretti in Sudafrica via Nairobi, con oltre 170 persone nel primo e 153 nel secondo. In totale più di 300 abitanti di Gaza portati all’estero in pochi mesi attraverso questi canali. E qui la storia si complica davvero.
Quando il volo di novembre atterra a Johannesburg, le autorità sudafricane restano sorprese. I 153 passeggeri rimangono bloccati a bordo per oltre 10 ore mentre Pretoria cerca di capire come gestire l’arrivo. Nessuno ha richiesto asilo, nessuno ha visti validi. Solo l’intervento dell’ONG locale Gift of the Givers sblocca la situazione con il fondatore Imtiaz Sooliman offre accoglienza temporanea e media con le autorità, che concedono permessi di emergenza di 90 giorni a 130 di loro. Sooliman racconta che molti non sapevano nemmeno di essere diretti in Sudafrica. Alcuni credevano di andare in Canada, Australia, India. Vaghe promesse, destinazioni cambiate all’ultimo.
Il presidente del Sud Africa Matamela Cyril Ramaphosa parla di persone “misteriosamente messe su un aereo” e dice che “sembravano essere state espulse” da Gaza. Il Ministro degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale ed ex ministro della Giustizia Ronald Lamola è più diretto: “C’è una chiara intenzione di espellere i palestinesi da Gaza e Cisgiordania, parte di un piano più ampio per rilocalizzarli in diverse parti del mondo”. Il Sudafrica, che ha portato Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio, non tollererà altri voli simili e apre un’indagine ufficiale in cui saranno attivati anche i servizi segreti.

Anche l’Autorità Palestinese reagisce duramente. L’ambasciata a Pretoria definisce Al-Majd Europe “un gruppo non registrato e fuorviante che ha sfruttato le condizioni tragiche del nostro popolo, ingannato le famiglie, prelevato denaro e facilitato viaggi irregolari”. Il Ministero degli Esteri a Ramallah mette in guardia: “Non affidatevi a reti che cercano di rimuovervi dalle vostre case in linea con gli interessi israeliani”. L’Egitto ribadisce che qualsiasi piano di trasferimento di palestinesi nel Sinai è “linea rossa” non negoziabile. Le Nazioni Unite, tramite il Relatore Speciale Francesca Albanese, avvertono che trasferimenti di questo tipo potrebbero servire “obiettivi genocidi” se attuati su larga scala.
Spostare gruppi di civili da un territorio occupato, senza garanzie di ritorno e fuori da canali trasparenti, non è dettaglio tecnico. È uno dei punti che segnano il confine tra operazioni militari e crimini di guerra. Se a farlo è uno Stato usando una sigla inventata, la responsabilità si aggrava e se questa pratica si consolida, diventa un precedente.
L’Unione Europea, pur con i soliti equilibrismi diplomatici, chiede “trasparenza completa” e “monitoraggio internazionale“. Quando un’operazione tocca frontiere, visti, status giuridici e coinvolge attori non registrati, Bruxelles non può limitarsi a parlare di aiuti umanitari. Se tutto fosse davvero un corridoio di evacuazione legittimo, non servirebbero enti fantasma, siti farlocchi e voli che atterrano senza che il paese ospitante sappia nulla.
In questo quadro entra Donald Trump. A inizio 2025, appena tornato alla Casa Bianca, racconta il suo “piano per Gaza” davanti alle telecamere: trasferire la popolazione palestinese in altri paesi, prendere il controllo della striscia e trasformarla in una “Riviera mediorientale” amministrata dagli Stati Uniti. Rimozione permanente di circa due milioni di persone, senza diritto al ritorno. Gaza ripulita, ricostruita con investimenti internazionali, diventata destinazione turistica. Una versione esplicita di un’idea che circola da anni nei settori più radicali dell’establishment israeliano per cambiare la geografia umana del conflitto spostando il problema altrove.
Netanyahu non prende distanze, anzi, loda l'”originalità” del piano americano e difende l’idea che se i civili di Gaza vogliono partire, bisogna facilitare la loro uscita. Egitto e Giordania respingono immediatamente l’ipotesi di assorbire milioni di palestinesi. Il presidente egiziano al-Sisi è categorico: “Non ci sarà spostamento di popolazione da Gaza al Sinai”. L’Arabia Saudita e gli Emirati sottolineano che la soluzione non può prevedere il trasferimento degli abitanti storici.
La coincidenza temporale non appare casuale. Trump parla di svuotare Gaza mentre Netanyahu governa il paese che controlla confini, valichi e liste di nominativi e nello stesso arco temporale nasce un’ONG fasulla che comincia a trasferire palestinesi a pagamento. È la traduzione operativa, su scala ridotta, di una visione demografica precisa. Non si può dire “deportazione” davanti alle telecamere, ma si può costruire una catena di intermediari, consulenti, siti anonimi, conti privati che produce nei fatti un risultato simile per togliere persone da un luogo e farle apparire altrove, lontano e senza testimoni.
Chi guarda questa storia solo come “evacuazione” perde il punto, perché non si tratta di salvare persone portandole in un posto migliore con un percorso chiaro, protetto, verificabile. Si chiede denaro a famiglie sotto le bombe, si raccolgono informazioni sensibili, si passa attraverso canali militari, si vola su charter organizzati fuori da qualsiasi regime di responsabilità. È deportazione strisciante, trasferimento forzato travestito da scelta, un atto di ingegneria demografica costruita sfruttando la disperazione prodotta proprio dagli israeliani.
Il caso Al-Majd Europe mostra cosa succede quando la politica smette di considerare le persone come cittadini o rifugiati e comincia a trattarle come numeri da spostare, un avvertimento su quanto sia fragile il confine tra soccorso e abuso ed è per questo che la reazione di altri Paesi, dell’ONU e dell’Europa non è un semplice dettaglio diplomatico.
Siamo difronte ad un test su quanto il sistema internazionale sia ancora disposto a opporsi a chi prova a cambiare un popolo attraverso canali sporchi e bugie pulite e su quanta attenzione saremo capaci di mantenere quando, spenti i riflettori sul singolo volo, queste pratiche proveranno a continuare nell’ombra.