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Trump ostacola l'Euro digitale

La sfida del nostro tempo non è scegliere tra finanza tradizionale e decentralizzata, ma imparare a farle convivere impedendo che diventino un’arma della disuguaglianza e del malaffare

Trump ostacola l'Euro digitale
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Marcello Cecconi Modifica articolo

7 Novembre 2025 - 19.22


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“Non è denaro reale”, gridava Donald Trump contro le criptomonete. Era appena otto anni fa. Ora, che più della metà del suo immenso patrimonio netto è legato al cripto, ha cambiato idea e sin dall’ultima campagna elettorale ha promesso di fare degli Usa la “capitale mondiale delle criptovalute”. Com’è nel suo stile, non si è preoccupato del conflitto di interessi e di opportunità che rappresenta quando a dettare le regole che favoriranno il mondo cripto sarà proprio lui.

La sua scelta è quella di non creare concorrenza a quel mondo e, non a caso, da gennaio scorso ha bloccato definitivamente il processo della Federal Reserve, la Banca Centrale statunitense, per il progettato Dollaro digitale. Il tutto giustificato con problemi di privacy e di “libero” mercato da preservare tanto da mettersi di traverso anche con l’Europa per il suo programma sull’Euro digitale.

Tutto quello che sta accadendo oggi nel mondo dimostra come da costrutto sociale-economico la moneta si sia trasformata sempre più in una potente leva per creare e gestire tensioni geopolitiche. La globalizzazione finanziaria, che avrebbe dovuto accrescere le opportunità di finanziamento e migliorare l’allocazione globale delle risorse nell’economia mondiale, ha disatteso le speranze: la causa del fallimento è la mancanza di regole adeguate e globalmente condivise.

E allora, nella fase attuale, potrebbe essere necessario che i vari sistemi si integrino e alle criptovalute nate dal basso si affianchino le central bank digital currency (Cbdc), monete ufficiali emesse dagli Stati e progettate per funzionare su infrastrutture digitali ma che difficilmente saranno decentralizzate (con scambio anonimo) come le criptovalute. Fra le Cbdc c’è anche l’Euro digitale, previsto per il 2029, che sarà una moneta che conserverà la garanzia statale ma si muoverà fuori dai canali tradizionali come i classici bancomat o i soliti bonifici.

Per Trump e per altri il limite è proprio sull’anonimità dello scambio che le criptovalute garantiscono alla pari del denaro contante e che le Cbdc, per loro natura, non potranno avere. Infatti, nelle Fag della Banca Centrale Europea che spiega benefici e caratteristiche del programmato Euro digitale si dice che: “Per le operazioni online l’Eurosistema non identificherebbe gli utenti che effettuano o ricevono pagamenti, proteggendo così i loro dati personali, ma i Psp, fornitori di servizi di pagamento (come per esempio Paypal, Apple pay, Google pay), sarebbero in grado di identificarli ai fini del rispetto delle norme antiriciclaggio”.

Chi si lamenta della mancanza di anonimità nell’uso dell’Euro digitale che verrà, ricorda che il riciclaggio è transitato e transita anche nel circuito tradizionale della finanza, e che pertanto non vale la pena creare concorrenza alle classiche criptovalute solo perché abusato mezzo di riciclo. Ma l’Euro digitale non nasce per sostituire le criptovalute e nemmeno banconote e monete, ma per affiancarle come strumento di pagamento sicuro, accessibile e accettato in tutta l’Eurozona. È evidente che una moneta emessa dalla Banca Centrale non potrà fare a meno di alcune regole affinché non diventi un mezzo che faciliti quel malaffare che sguazza nel “liberissimo” mondo delle criptovalute.

Nei tempi antichi, il baratto misurava il valore nella materialità degli oggetti, ma era un sistema perfettibile, perché richiedeva la coincidenza di bisogni reciproci. Proprio da questo limite del baratto che nasceva la moneta, prima d’oro, poi di metallo meno pregiato e infine di carta, come simbolo condiviso di valore ma garantito da un’autorità riconosciuta. Tutto ciò fino al 1971, quando gli Stati Uniti decisero di porre fine agli accordi di Bretton Woods (firmati da 44 Paesi dopo la fine della Seconda Guerra mondiale per ristabilire un ordine economico), recidendo il legame tra moneta e oro.

Da allora, il denaro non è più garantito da un bene fisico, ma da qualcosa di più fragile ma possente: la fiducia collettiva nel sistema economico e politico che lo emette. Una banconota vale perché crediamo che valga, e questa credenza condivisa tiene insieme l’intera architettura del mondo moderno. Proprio quando quella fiducia ha iniziato a vacillare, dopo crisi finanziarie, speculazioni e fallimenti bancari, è apparso Bitcoin. Nato nel 2009, nel pieno della crisi dei mutui subprime, ha un chiaro manifesto ideologico: creare una forma di denaro che non dipenda dall’affidabilità umana, ma da un sistema incorruttibile basato su algoritmi e matematica.

La parola chiave è “decentralizzazione”, cioè togliere il potere dalle mani delle istituzioni per distribuirlo in una rete anonima ma trasparente. Una “coraggiosa” promessa di libertà, ma anche una sfida alle fondamenta stesse della società organizzata che da secoli si regge su intermediari di fiducia: dalle banche agli Stati.

Come la storia insegna, nessuna moneta può sopravvivere se smettiamo di credere in ciò che rappresenta. È un patto sociale, non un codice informatico, e funziona solo se crediamo in esso. La sfida del nostro tempo, dunque, non è scegliere tra finanza tradizionale e decentralizzata, ma imparare a farle convivere impedendo che diventino un’arma della disuguaglianza e del malaffare. La tecnologia può rendere i sistemi più trasparenti ed efficienti ma produrranno vera democrazia solo se abbinati a un’etica condivisa.

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