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Boicottaggio accademico: perché sostenerlo non è da antisemiti

In cosa consiste il boicottaggio accademico e perché è così importante attuarlo nei confronti degli atenei israeliani?

Boicottaggio accademico: perché sostenerlo non è da antisemiti
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3 Ottobre 2025 - 12.30


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di Arianna Scarselli

Il boicottaggio accademico nasce come forma di protesta civica, non violenta, con l’obiettivo di mettere in difficoltà un governo e l’istituzione culturale. Oggi si inserisce nel più ampio movimento del BDS: Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. La sua nascita risale a metà degli anni Sessanta quando più di cinquecento docenti universitari inglesi decisero di rompere le collaborazioni con gli atenei sudafricani condannando l’apartheid. Funzionò, l’isolamento culturale e il danno economico prodotto dal boicottaggio aiutarono a porre fine al regime di segregazione. 

Oggi quando si parla di boicottaggio si parla anche di Palestina e del genocidio in corso eppure, nonostante una storia di successo e l’opinione pubblica sempre più schierata a sostegno del popolo palestinese, le resistenze alla sua attuazione sono fortissime. Ciò è incomprensibile anche al solo livello legislativo: la Convenzione ONU per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 – ratificata dall’Italia – stabilisce l’obbligo per ogni soggetto pubblico – università comprese dunque – di prevenire e di non essere complice, neppure indirettamente, di atti che possano configurare genocidio. A ribadirlo sono state le ordinanze del 26 gennaio  e del 24 maggio 2024, relative il caso Sudafrica vs Israele, dove si legge che è dovere di tutte le istituzioni di adottare ogni misura possibile per prevenirlo, incluso sospendere i rapporti e le collaborazioni che possano favorirne la prosecuzione.

Nel caso specifico del boicottaggio verso Israele l’obiettivo è colpire gli atenei in quanto strumento di repressione, apartheid scolastico e genocidio. È sciocco far iniziare il discorso a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre considerando che gli atenei israeliani nascono come strumento di controllo e colonialismo. Nel 1948 sono stati sede dell’esercito israeliano che ha cacciato e costretto alla fuga più di 800.000 palestinesi dalle loro case. Parlo della Nakba, la “catastrofe”, l’esilio forzato che il popolo palestinese commemora col simbolo delle chiavi delle abitazioni dove non possono tornare. Da allora al 2023 la ricerca negli atenei palestinesi è stata ostacolata togliendo la corrente ai laboratori, impedendo al personale di accedere alle strutture trattenendoli ore ai check point illegali o arrestandoli direttamente, spesso con false accuse e processi farsa.

Ma la critica verso gli atenei israeliani non si limita al ricordo cristallizzato delle nefandezze fatte in passato, oggi la ricerca israeliana sviluppa e testa armi e tecnologie sul popolo palestinese e tutto il ramo delle scienze sociali e umane lavora per legittimare le pretese dello Stato sionista in Palestina. Ne è un esempio lampante l’archeologia: fioriscono le ricerche “scientifiche” finanziate da enti privati e da atenei israeliani che documentano la nascita e la storia dello Stato del Grande Israele quando in realtà non è mai esistito. In questo frangente è importante ricordare anche l’impegno costante di tante menti brillanti – diverse proprio ebree israeliane – che hanno denunciato tale pseudo-ricerca scientifica votata all’ideologia e che hanno dedicato o stanno dedicando la vita a combattere il sionismo, denunciando la realtà della pulizia etnica in corso da ormai decenni.

Negli ultimi anni al centro del dibattito è stato il concetto di dual use, cioè tutte quelle tecnologie o ricerche che, pur essendo progettati per scopi civili, possono essere adattati all’ambito militare. Si parla di tecnologie di spionaggio, di riconoscimento e classificazione, AI, armi nucleari, chimiche o biologiche. Tuttavia con il caso israeliano si può parlare direttamente di ricerca universitaria a uso militare, un concetto che va contro l’idea stessa di università libera. 

Fondamentale è poi l’uso strumentale che il Sionismo fa della teologia; la lettura letterale – privata dell’immenso e fondamentale apparato metaforico – e acritica della Bibbia è diventata la Magna Charta Libertatum del Sionismo. Israele sfrutta la Bibbia per scopi propagandistici in un modo che solitamente in passato è stato condannato come eretico. Ma il governo israeliano non si critica. Questo è un altro punto che quando si parla di boicottaggio accademico viene sempre preso in causa e solitamente in maniera errata. In italiano abbiamo due termini che a quanto pare per molte persone sono difficili da comprendere e che spesso vengono pericolosamente utilizzati come sinonimi; parliamo di antisemitismo e antisionismo. Il primo è il frutto di un pregiudizio razzista che si manifesta nell’odio e nella discriminazione verso gli ebrei in quanto tali; il secondo indica la critica e il rifiuto delle idee del Movimento Sionista, un’ideologia nazionalista nata nel XIX secolo con l’obiettivo di creare uno Stato Ebraico in Palestina.

Quando si vanno a mischiare religione e potere economico-politico, i danni sono sempre tanti. Il problema di fondo sta nell’idea di Stato confessionale. Quando si rinuncia alla laicità e alla libertà di culto in favore di una religione unica si va automaticamente a imporsi e discriminare parte della popolazione. È importante infatti ricordare quanto è personale e intima la fede religiosa. Uno Stato che non accetta la diversità, la mescolanza, la convivenza di culture, tradizioni, idee e fedi diverse, è un luogo già in partenza pericoloso per una società plurale. Sorge spontaneo chiedersi perché si accusa di antisemitismo chi critica le azioni compiute da un Governo che rivendica l’essere erede dell’ideologia sionista. Forse la radice sta in una scarsa conoscenza della lingua italiana?

Ciò che molti, anche all’interno della comunità accademica mondiale, continuano a non capire o rifiutano è che boicottare l’istituzione israeliana non è un attacco verso le singole persone, non si tratta insomma di muoversi come Trump che ha messo delle sanzioni ad personam alla relatrice speciale per i Territori Palestinesi Occupati Francesca Albanese.

Il quadro che emerge è dunque quello in cui le università israeliane sono parte attiva del genocidio, normalizzando pratiche di discriminazione, legittimando il Sionismo e progettando armi e altro materiale di impiego bellico. Attività che le nostre università continuano a sostenere. È perciò fondamentale continuare a parlarne, discutendone pubblicamente e negli organi di ateneo, portando mozioni come è successo in tante università, a volte anche con risultati positivi. È tardi ma ciò non significa che non possiamo fare niente.

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