“Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Così Gesù chiamava a sé i primi discepoli, che lasciavano le reti per seguirlo in carne e spirito. Oggi che le reti non possono più pescare nelle chiese e nelle parrocchie costringono i preti a percorrere la virtualità. Nascono così i missionari di Gesù in rete. Le piattaforme si chiamano TikTok, YouTube, Instagram e anche Facebook. I discepoli di oggi, pescatori di anime, hanno imparato a editare video, montare reel, ottimizzare la Seo e stropicciare le mani alla conta dei like. Il 28 e 29 luglio, il Giubileo dei “missionari digitali”, voluto da Papa Francesco, celebrerà ufficialmente questa nuova generazione di preti 2.0.
Sono sacerdoti, frati, suore con lo smartphone in mano. Recitano rosari in diretta, spiegano il Vangelo in 60 secondi, ballano trend musicali con il crocifisso al collo e aggiungono hashtag ispirazionali tipo #il corpo è il tempio dello Spirito Santo. Molti raggiungono decina di migliaia, quando non centinaia, di visualizzazioni. In un certo senso è tutto molto evangelico, ma anche molto algoritmico.
D’altronde, il Vangelo va annunciato “fino ai confini della terra”, e oggi quei confini si misurano in giga e connessioni. Impossibile non interrogarci sul fatto che si tratta di una logica evoluzione dei tempi o di un teatrino iperconnesso che rischia di trasformare la predicazione in una performance, il sacerdote in un content creator e la fede in un format.
La Santa Sede sembra crederci. Francesco ha benedetto i missionari digitali, riconoscendone l’impegno nel “portare Cristo nelle periferie del web”. Ma ora toccherà al nuovo Papa Leone, ancora sotto osservazione, mostrarsi (o non mostrarsi) in questa nuova liturgia mediatica. Il papa attuale è conosciuto per un approccio diverso alla comunicazione, più razionale e meno empatica di quella scoppiettante di Francesco, e per una sobrietà che ricorda più i Padri del deserto che i Padri social.
Il prossimo 28 luglio, ad aprire il “Giubileo dei missionari digitali e influencer cattolici” ci saranno il Card. Pietro Parolin e Mons. Rino Fisichella. Personaggi di spicco, certo, ma sarà interessante e, diciamolo, potenzialmente spiazzante, vedere se e come interverrà Papa Prevost.
Perché una cosa è certa: l’altare si è moltiplicato ed è ovunque ci sia uno schermo. Ma se un tempo il sacerdote saliva sul pulpito indossando una tonaca e con in mano una Bibbia o un Vangelo, oggi lo fa con una ring light, quell’anello da applicare allo smartphone o alla webcam per illuminare meglio la scena, e una strategia digitale accorta.
La postura cambia, il corpo viene esposto e il carisma da evangelizzatore, un tempo costruito solo sull’alone spirituale, ora deve essere soprattutto fotogenico. Lecito domandarsi se siamo ancora all’interno del Vangelo di Giovanni che ci ricorda che il “verbo si fa carne” o se invece stiamo assistendo alla “carne che si fa contenuto digitale”.
Certo, c’è anche del buono. Ci sono giovani che si avvicinano alla fede grazie a un video su YouTube. Ci sono testimonianze vere, preti sinceri, evangelizzatori che non cercano la viralità ma la verità. Ma ce ne sono anche altri che si trasformano in piccole celebrità, con un occhio alla Scrittura e uno al contatore delle visualizzazioni.
Siamo passati dalla Chiesa delle piazze a quella delle piattaforme. Il rischio potrebbe essere che la fede diventi “followabile” solo se è anche intrattenimento. E che, alla lunga, non sia più il messaggio ad arrivare ma il suo impacchettamento. Quando la parola diventa uno slogan e l’intimità della preghiera un post condivisibile all’interno di questa grande messa digitale, difficile capire se il celebrante è un prete o un algoritmo.