di Luisa Marini
Al Make News festival, alla sua quarta edizione e dedicato quest’anno al giornalismo d’inchiesta, si è parlato di Gaza attraverso il dialogo tra giornalisti italiani, inviati in Palestina fino a che non è stato loro negato l’ingresso, e tre ospiti palestinesi, la giornalista Faten Elwan, la ricercatrice Aya Ashour e il giornalista di Al Jazeera Safwat Kahlout (che non ho ascoltato perché è stato presente solo al workshop della mattina). La prima, già giornalista per Al Jazeera e TRT World, ha documentato attraverso i suoi video sui social la situazione a Gaza, finché gli israeliani non hanno iniziato a minacciare, dopo di lei, anche la sua famiglia; la seconda, giovane avvocato di Diritto Internazionale e giornalista, ha scritto storie quotidiane di vita a Gaza con i suoi diari su Il Fatto Quotidiano, quasi fossero messaggi in bottiglia al resto del mondo.
La mia urgenza di partecipare al festival è stata motivata dall’ascoltare, dalle loro voci e da quelle dei giornalisti italiani inviati, l’esperienza diretta nella Striscia. Si sono alternati a parlare, nei diversi incontri in cui sono stata presente, i giornalisti italiani Valerio Cataldi e Giulia Bosetti, corrispondenti RAI, che hanno proiettato anche i loro documenti video, Fabio Tonacci di La Repubblica, Raffaele Oriani, che ha lasciato lo scorso anno per protesta la redazione de Il Venerdì di Repubblica, Paola Caridi, profonda conoscitrice della storia politica contemporanea del mondo arabo.

Faten Elwan è orgogliosa di combattere per la verità e di portare la sua testimonianza: ha raccontato della rete 24 ore su 24 con gli altri giornalisti palestinesi via Whatsapp, ha mostrato nel video Targeting journalists is a crime. Diari dalla Palestina e da Gaza i rischi del mostrare al mondo una quotidianità fatta di attacchi continui e macerie. Lei stessa è stata colpita tre volte dai cecchini nonostante la fascia PRESS sul petto, minacciata di morte con continue telefonate notturne per non farla dormire e farla cedere per stanchezza, finché le minacce non sono state rivolte alla sua famiglia.
Oggi è rifugiata a Marsiglia. Il suo ricordo va ai più di 200 giornalisti palestinesi uccisi da Israele con la scusa di essere fonti di Hamas, per non permettere al resto del mondo di sapere quello che sta succedendo, dato che è stato vietato l’ingresso ai giornalisti internazionali. È a loro che va il suo appello: parlate di noi, l’informazione è un diritto negato e offuscato dalle bugie e omissioni del governo di Netanyahu, si può fermare il genocidio, perché di questo si tratta, la cancellazione di un popolo per motivi religiosi.
Parlando con lei a tu per tu, dopo uno degli incontri, ho visto nei suoi occhi tutto l’orgoglio di essere palestinese e l’urgenza di usare l’informazione per fermare lo sterminio, e le ho detto che è più di una giornalista, è una guerriera.
Raffaele Oriani nel 2024 ha lasciato la redazione con questa lettera: “Care colleghe e colleghi, ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica.
Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
Oriani ha anche scritto il libro Gaza, la scorta mediatica – Come la grande stampa ha accompagnato il massacro, e perché me ne sono chiamato fuori e su questa falsariga ha tenuto il suo incontro, denunciando le informazioni sul genocidio, perché di questo si tratta, sparse qua e là in trafiletti di poche righe. Se qualcosa sta cambiando, non è abbastanza, dice.
La sera, ascolto Aya Ashur, dal 25 giugno scorso accolta presso l’Unistrasi grazie all’interessamento del rettore Tomaso Montanari, presentata da lui e Paola Caridi. Aya ha 24 anni ma ne dimostra di meno, il viso sorridente di chi capisci ha sofferto, è vestita con una sciarpa tradizionale tessuta in Palestina e appare come una ragazzina timida. Ma quando inizia a raccontare, la sua voce è ferma e altrettanto orgogliosa di quella di Faten. Racconta del suo viaggio verso l’Italia, partita col minimo indispensabile, ossia quasi niente, e dell’affetto con cui è investita dalle persone che la incontrano a Siena, che continua a stupirla.
Ma soprattutto, quello che ammutolisce la platea, è la semplicità nel descrivere la storia dello sfollamento della sua famiglia nell’aula di una scuola, dove viene accolta proprio dalla famiglia di una donna, Maria, che aveva intervistato poco tempo prima, della convivenza non facile ma umana di molte persone in pochi metri quadri, e il tentativo di festeggiare il compleanno della nipotina della donna con poco o niente. La notizia che tutta la famiglia di Maria è stata sterminata poco tempo dopo arriva su di noi come una doccia fredda.
Aya ha spiegato cosa vuol dire “fare giornalismo” a Gaza: “Continui a parlare, a lottare, a tenerti dentro i sentimenti e le emozioni, a metterti davanti alla telecamera per raccontare quello che succede. Anche se hai fame. Anche se hai perso qualcuno. Anche se sei malata. Anche se sei stanca. Non hai diritto di dire al mondo: Sono stanca. Non voglio più fare la giornalista. Voglio essere una civile, un essere umano… Non hai questa scelta”.
Noi tutti abbiamo l’obbligo di dissentire dalla carneficina sistematica di due milioni di persone che stanno letteralmente morendo di fame.