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Una terza via per l’America: Musk riapre il dibattito e tornano le ambizioni indipendenti

Il sistema bipartitico USA resiste nonostante il malcontento diffuso. Con Luca Verzichelli, politologo e docente all’Universita di Siena, abbiamo discusso anche dell’ipotesi di Elon Musk di formare un nuovo partito: tra ostacoli culturali e strutturali, il duopolio resta difficile da scalfire.

Una terza via per l’America: Musk riapre il dibattito e tornano le ambizioni indipendenti
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Marialaura Baldino Modifica articolo

11 Luglio 2025 - 12.06


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Da oltre due secoli, il sistema politico statunitense è dominato da due soli partiti: Democratici e Repubblicani. Nonostante le profonde trasformazioni sociali, economiche e tecnologiche, questo schema bipartitico continua a sopravvivere, resistendo a crisi interne e sfide esterne. Tuttavia, il crescente malcontento degli elettori e le pressioni provenienti da nuovi attori della scena pubblica, tra cui il magnate tecnologico Elon Musk, aprono nuovi interrogativi.

Musk ha recentemente paventato la possibilità di fondare un nuovo partito politico, posizionandosi oltre le tradizionali categorie ideologiche e puntando su innovazione, pragmatismo e anti-establishment. Una provocazione, un progetto reale o l’ennesimo tentativo destinato a fallire?

Ne abbiamo discusso con il professore Luca Verzichelli, politologo e ordinario di Scienza Politica e di Politiche globali comparate presso l’Università degli Studi di Siena.

Il bipartitismo è una costante del sistema politico statunitense sin dalla fine del Settecento. Secondo Lei, quali sono i principali motivi istituzionali e culturali che ne spiegano la persistenza fino ad oggi?

Il primo e fondamentale fattore che spiega la natura tradizionalmente bipartitica del sistema americano è naturalmente il sistema elettorale. Gli Stati Uniti sono da sempre una democrazia plurale, federale e anche multietnica. Eppure, quando si parla di sistema partitico e di sistema di competizione rimangono una democrazia anglosassone e fondamentalmente maggioritaria. Non a caso, il sistema dei collegi uninominali applicato sia per la Camera dei rappresentanti che per il Senato, e nella gran parte dei casi anche a livello di elezioni statali, non è mai stato messo in discussione dalla nascita del Congresso quasi due secoli e mezzo fa…

Il sistema elettorale “first-past-the-post” degli Stati Uniti sembra scoraggiare l’emergere di terze forze. Ritiene che questo meccanismo costituisca una barriera insormontabile per un’alternativa al duopolio Democratici-Repubblicani? E in che misura la polarizzazione estrema tra i due poli contribuisce al rafforzamento del sistema bipartitico, piuttosto che alla sua crisi?

In realtà il sistema maggioritario a collegi uninominali di per sé non costituirebbe un vincolo assoluto allo sviluppo del multipartitismo. La letteratura indica chiaramente i fattori di debolezza della famosa legge di Duverger la quale assume che il maggioritario debba avere come effetto diretto un sistema bipartitico. E tali fattori – in particolare la frammentazione culturale del territorio – esistono in una grande e frammentata società come quella americana. Eppure, fatti salvi i momenti di crisi e spaccatura dei partiti tradizionali e quindi le brevi transizioni tripartitiche del passato, ai tempi di Lincoln o con il clamoroso ritorno di Theodore Roosevelt nel 1912 alla testa del partito progressista, lo sviluppo di nuovi partiti nazionali sembra inibito da fattori culturali e dal pragmatismo dei molti elettori americani, che si dichiarano indipendenti ma che sono anche allineati alla logica binaria del sistema.

E d’altra parte anche dei partiti regionali (come quelli che a parità di sistema elettorale riescono ad emergere nel Quebec o in Scozia) negli Usa non hanno ragione di esistere, poiché le differenze di posizioni anche dentro un partito sono ampie da uno stato all’altro. I democratici degli stati del Sud, come sappiamo, sono stati a lungo razzisti e conservatori, mentre i loro colleghi della costa atlantica si battevano contro segregazione e tradizionalismo. Qualcuno asserisce che ci sono 100 partiti negli USA: 50 sono repubblicani e 50 democratici. 

La polarizzazione sotto questo punto di vista è un punto a favore del duopolio, perché attrae di nuovo verso uno dei due poli elettori poco affezionati ma che “odiano” troppo i leader dell’altro partito per non votare. Però, questo diventa un limite quando entrambe le leadership del duopolio sono viste come un inutile e costoso establishment. E qui entra in ballo Musk…

Infatti, secondo sondaggi recenti del Pew Research Center, una crescente fetta dell’elettorato americano si dichiara “politicamente orfana”, insoddisfatta di entrambi i principali partiti. Questo, allora, potrebbe rappresentare un terreno fertile per una forza politica alternativa o si tratta di un malcontento fisiologico e poco strutturato?

Questa è la vera novità. E non è una novità americana. Il credito ai partiti tradizionali è sotto i tacchi in tutte le democrazie. E la vittoria di Trump soddisfa solo in parte le aspettative dei populisti: Trump ha scalato un Grand Old Party che rimane tuttavia, agli occhi di elettori e osservatori populisti, un’accolita di politici che vivono alle spalle del paese. Vi è, dunque, uno spazio vuoto. E vi è un elettorato potenzialmente svincolato sia nel bacino repubblicano che, in parte, in quello democratico. Ma dobbiamo anche valutare con attenzione i numeri reali: di questi milioni di elettori potenziali, una buona parte non vota da tempo. Altri potrebbero tornare a votare i propri vecchi partiti nel momento in cui si accorgessero che un nuovo partito, al di là delle idee visionarie e tecno-futuristiche, dovesse proporre delle scelte dure su scuola e welfare. 

Elon Musk ha recentemente ipotizzato la creazione di un “nuovo partito centrista”, posizionandosi come alternativa al bipolarismo tradizionale. È un’iniziativa plausibile sul piano pratico o una mossa provocatoria? E se un nuovo partito tecnologico-centrico da egli sostenuto dovesse ottenere consenso elettorale, quale dei due partiti tradizionali rischierebbe di perdere più voti? E perché?

Difficile naturalmente dire cosa è provocatorio e cosa plausibile quando parla un personaggio come Musk. Ad oggi, direi che l’iniziativa può avere un seguito perché la novità che stavamo appena descrivendo è reale, e perché la rottura con Trump appare insanabile, anche dati gli interessi obiettivamente divergenti dei due leader. Al tempo stesso, è un’iniziativa molto difficile per una serie di ragioni. In primo luogo, consideriamo che organizzare un partito nazionale è difficile anche per un miliardario.

Raccogliere firme per candidare propri iscritti in tutti i collegi a livello nazionale è un’impresa ardua: lo stesso Trump ha preferito scalare il partito repubblicano per una seconda volta nel 2024 proprio per non insabbiarsi nelle procedure del processo di candidatura. E credo che sia obiettivamente difficile anche per Elon Musk trovare le risorse per lanciare un nuovo partito su base nazionale.

È vero: è l’uomo più ricco del mondo. Ma per avere un partito tutto suo senza contare – almeno inizialmente – su altri finanziatori dovrebbe tirare fuori qualche centinaio di milione di dollari solo per completare il public action committee. Questa operazione potrebbe alla fine assicurargli una base tra il 5 e il 12% (questi le attuali previsioni a livello nazionale), certo sufficiente a garantire qualche eletto al congresso nel 2026, ma che non costituirebbe necessariamente il viatico per il suo controllo sul potere politico USA. Immagino che voglia prima di fare il vero grande passo guardare ancora un poco i sondaggi, oppure trovare qualche altro miliardario che appoggi subito il progetto.

Nel corso della storia statunitense non sono mancati i tentativi di rompere il duopolio politico: dal Partito Progressista di Theodore Roosevelt nel 1912, al Partito della Riforma di Ross Perot negli anni ‘90, fino alle candidature indipendenti di Ralph Nader e, più recentemente, di Howard Schultz. Tuttavia, nessuno di questi ha avuto un impatto duraturo sul sistema. Secondo Lei, quali sono stati i principali limiti strutturali, culturali o strategici che hanno portato al fallimento di questi esperimenti? E quali lezioni potrebbero trarne oggi eventuali iniziative come quella già citata di Elon Musk?

In qualche modo l’atavico e anglosassone senso bipartitico degli americani per il bipartitismo che discutevamo prima è in qualche modo il primo vincolo culturale per cui i partiti sfidanti, a sinistra verdi e libertari, a destra vari partiti-movimenti radicali come il tea-party, preferiscono attivarsi solo simbolicamente per mettere in evidenza il proprio potenziale di ricatto (cioè presentando saltuariamente candidature che possono danneggiare i partiti più vicini ma senza alcuna speranza di elezione.

I casi del passato, dall’Unione nazionale che rielesse Lincoln nel 1864 fino al Progressive party di Theodore Roosevelt, sono stati – come abbiamo detto – dei momenti di metamorfosi dei partiti preesistenti e non hanno davvero rappresentato uno scenario tripartitico. Forse solo il reform party di Perot nel 1992 è un esempio abbastanza solido di forzatura verso la dimensione tripartitica. Consideriamo che nel 1992 il suo fondatore Ross Perot sfiorò i 20 milioni di voti e il 19% dell’elettorato popolare. Lasciando poi un partito che per tre decenni è stato in grado di eleggere, qua e là, qualche rappresentante lanciando le candidature “terze” di personaggi abbastanza noti, tra le quali quella di un certo Donald Trump nel 2000. Sotto questo aspetto, l’America party di Musk riprende alcune linee del discorso di Perot, anche se si definisce third party e non moderate party. In quest’ottica, Musk ha qualche carta in più (i soldi e la sua indiscutibile creatività), ma forse una carta in meno (il fatto di essere “terzo” ma non così “centrista”).

Per concludere, il bipartitismo americano è destinato a resistere, evolversi o cedere il passo a nuovi equilibri? E quali segnali concreti ci suggerisce la realtà politica del 2025?

Continuo a pensare che sia difficile uscire dal bipartitismo negli Stati Uniti. Ma, continuo anche a vedere una serie infinita di novità, quasi tutte non previste dagli analisti. Novità che, a noi nostalgici della politica del XX secolo, non piacciono ma che non possiamo non osservare.

Quindi ci sarebbe poco da sorprendersi a vedere, tra alcuni mesi, uno scenario davvero nuovo anche negli USA con il partito di Elon Musk che sfida i due vecchi colossi. D’altra parte, uno scenario non dissimile può accadere con l’eventuale vittoria del Reform Party nel Regno Unito, e l’ulteriore crescita di molti nuovi partiti populisti in altre democrazie avanzate è anche molto probabile. 

La verità è che la politica dei partiti, dei programmi, delle scuole ideologiche e delle élite professionali è in crisi. Vari tipi di imprenditori politici possono riempire questo vuoto: tycoons, uomini di spettacolo, manager di successo. Musk ha la peculiarità di riassumere assieme tutte queste storie e soprattutto ha un patrimonio di circa 250 miliardi di dollari. Dispiace dirlo ma con queste cifre diventa facile fondare un partito vincente in molte democrazie. Quindi, ha molte chance anche nel suo attuale paese. Ma ripeto, credo che ci penserà ancora un poco prima di bruciare milioni e milioni di dollari in quella che diventerebbe la sua campagna elettorale permanente.

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