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Venti anni per sentirsi a casa: l'odissea di Pegah Moshir Pour per la cittadinanza italiana

L'attivista racconta la sua lunga e frustrante esperienza per ottenere la cittadinanza, evidenziando le barriere burocratiche e il senso di esclusione vissuto da chi, pur essendo parte integrante del tessuto sociale italiano, non viene riconosciuto legalmente.

Venti anni per sentirsi a casa: l'odissea di Pegah Moshir Pour per la cittadinanza italiana
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13 Maggio 2025 - 16.06


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di Azzurra Arlotto

In vista del referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno, l’attivista per i diritti umani e digitali Pegah Moshir Pour ha condiviso sulle pagine di Wired la sua personale battaglia per ottenere lo status di cittadina italiana, un percorso costellato di ostacoli e attese che accomunano molte persone nella sua situazione.

Moshir Pour, cresciuta in Italia dall’età di nove anni, ha scoperto all’improvviso, precisamente all’età di quindici anni, di non essere legalmente italiana. Un’amara rivelazione che ha incrinato la sua identità: “Avevo quindici anni quando ho scoperto che non ero cittadina italiana. Una scoperta amara, silenziosa, che è arrivata come una doccia fredda in un giorno qualunque”.

Nonostante parlasse l’italiano meglio del persiano, amasse la cultura italiana e si sentisse profondamente legata al Paese, la realtà burocratica si è presentata come un muro invalicabile. Come le chiese incredula un’amica: Ma come? In che senso non sei italiana?.

L’attivista spiega che la legge italiana prevede dieci anni di residenza continuativa per poter presentare la domanda di cittadinanza, ma questo si rivela essere solo l’inizio di un lungo e spesso frustrante iter: “In Italia, la legge dice che devi vivere dieci anni in modo continuativo sul territorio per poter presentare la domanda di cittadinanza. Ma quello, scoprii, era solo l’inizio. Dopo la domanda, iniziava l’attesa: questure, silenzi, documenti richiesti più volte, uffici che rimandano, pratiche che si perdono”. Moshir Pour sottolinea come, per molti, l’attesa possa protrarsi per un altro decennio, portando a un totale di “venti anni in totale. Venti anni per vedere riconosciuto ciò che già senti nel cuore“.

Questo lungo periodo di limbo legale comporta significative limitazioni e un profondo senso di esclusione. L’attivista ricorda le parole di un ragazzo: “L’Italia è casa mia, ma non posso nemmeno firmare per una petizione ufficiale. È come vivere con la porta chiusa dall’interno”, e di un’altra giovane che con voce spezzata confidava: “Mi sento figlia di un Paese che non vuole riconoscermi”.

Per Pegah Moshir Pour, chi è nato o cresciuto in Italia, ha frequentato le scuole italiane e pensa in italiano “non dovrebbe dover dimostrare di meritare ciò che è già”. La cittadinanza, afferma, “non è un premio, è il riconoscimento di una realtà vissuta”.

Ora che ha finalmente ottenuto la cittadinanza e il diritto di voto, Moshir Pour è consapevole del valore di questo diritto, soprattutto pensando a chi ancora non lo possiede. Per questo, in vista del referendum, esorta i cittadini a recarsi alle urne: “Allora votate l’8 e 9 giugno, in occasione del referendum sulla cittadinanza. Fatelo anche per chi, come me un tempo, non poteva. Fatelo per costruire un’Italia più giusta, più accogliente, più vera”. Il suo appello è un chiaro invito a considerare il voto come un atto di civiltà e un dovere verso coloro che contribuiscono quotidianamente alla società italiana, ma sono ancora esclusi dal pieno riconoscimento dei loro diritti.

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