di Marcello Cecconi
Molti ricorderanno La corazzata Potëmkin di Sergej M. Ejzenstejn, se non altro per essere stata definita “una cagata pazzesca” da Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi. Ma il famoso regista russo, anzi sovietico, Ejzenstejn, prima della pellicola resa ancor più popolare da Villaggio, aveva fatto uscire nelle sale sovietiche Sciopero (Stachka), il primo suo lungometraggio.
Sono cent’anni, dunque, da quando questo giovane ingegnere, prestato al teatro e convertito al cinema, dava forza alle immagini e alla propaganda attraverso l’opera dalla quale prendeva il via il cinema muto sovietico. Sciopero è del 1925 e a distanza di pochi anni dalla Rivoluzione del 1917 non fu solo un film di propaganda anticapitalista ma un manifesto di tecnica ed estetica ideologica che, per chi segue l’evoluzione del linguaggio cinematografico, resta un punto di riferimento.
Me lo sono rivisto, oggi, dopo molto tempo ne in occasione della giornata della Festa del Lavoro. L’ho fatto per prendere atto di come e quanto le battaglie dei lavoratori siano cambiate in questi cent’anni insieme ai contesti economici, sociali e politici. Ma l’occasione è ghiotta, anche, per provare a tracciare un sintetico parallelo di tecnica cinematografica e di messaggio sociale tra due eccelse e coeve icone del film muto europeo: Sciopero, appunto, e Metropolis, del 1927 diretto da Fritz Lang nella Germania ante-nazismo, che ho rivisto, anch’esso, qualche giorno fa.
Sciopero è ambientato in una grande fabbrica russa prima della Rivoluzione del 1917 e racconta la nascita e lo sviluppo di una rivolta operaia. Dopo il suicidio di un lavoratore ingiustamente accusato di furto, i suoi compagni decidono di proclamare uno sciopero generale. Gli operai si organizzano, resistono alle provocazioni dei padroni e dei provocatori infiltrati, ma la repressione da parte del potere è brutale. Il contrasto tra la vita difficile degli operai e l’opulenza dei dirigenti è evidenziato per mettere in luce le ingiustizie del capitalismo zarista. La narrazione culmina con la repressione violenta dello sciopero, con una delle scene più celebri della storia del cinema: il montaggio parallelo tra la carneficina degli operai e la macellazione di un bue, a simbolo della brutalità del potere contro il popolo.
Metropolis è ambientato in una megalopoli futuristica divisa in due classi: in superficie vivono i ricchi e i potenti, in un mondo di lussi e giardini; nel sottosuolo, gli operai lavorano come schiavi per far funzionare la città. Il figlio del potente governatore scopre la dura realtà della classe lavoratrice e rimane sconvolto. Incontra una giovane profetessa degli operai che predica la pace e l’unione tra le classi. Il governatore, temendo una rivolta, incarica uno scienziato di costruire un robot con le sembianze della giovane profetessa per seminare caos tra i lavoratori. La profetessa-robot incita gli operai alla distruzione, portando alla ribellione e al rischio di catastrofe per l’intera città. Alla fine arriva l’eroe positivo, sarà il figlio del governatore a ristabilire l’ordine riconciliando suo padre e i lavoratori nel nome di in una visione umanista e simbolica.
Entrambi i film nascono in un’epoca convulsa, marcata da industrializzazione feroce, tensioni sociali e ideologie in fermento. Ma se si confrontano, ci si accorge subito che parlano della stessa materia, il conflitto di classe, ma con linguaggi opposti e visioni inconciliabili.
Due percorsi di tecnica cinematografica differenti. Ejzenstejn costruisce Sciopero su una logica di conflitto, evidenziandola con il montaggio che diventa protagonista: ritmo serrato, inquadrature brevi, immagini simboliche accostate per generare sensazioni forti attraverso lo scontro visuale. Insomma, non far vedere il concetto da esprimere ma farlo risaltare, venir fuori, dall’attrito tra due immagini. Fritz Lang, al contrario, affida a Metropolis una costruzione che predilige la plasticità e le scenografie monumentali. Questa architettura visiva diventa il pernio della sua estetica cinematografica: la città futurista, la torre di Babele, la cattedrale meccanica. Sono tutti spazi simbolici in cui si muovono personaggi stilizzati, come fossero marionette teatrali. Con lui la macchina da presa indugia nei campi lunghi, nella fluidità dei movimenti privilegiando i dettagli espressionisti. In Sciopero la macchina da presa è militante e la frammentazione delle immagini ti scuote mentre in Metropolis, la macchina da presa è architetto attraverso una visione totale che sorprende e incanta.
Due messaggi opposti. Quello di Sciopero è esplicito, chiaro e ideologico: la lotta di classe è indispensabile, la coscienza collettiva è l’unica via per il riscatto, il capitalismo è repressione e sfruttamento. Non ci sono protagonisti individuali ma masse che si muovono come un unico e massiccio corpo politico. L’ultima scena con i corpi degli operai uccisi alternati nel montaggio a quelli del bue sgozzato al macello è una denuncia senza compromessi. Metropolis, al contrario, offre una visione più conciliatoria, quasi religiosa. Il conflitto tra la “testa” dell’élite e le “mani” del proletariato viene risolto grazie alla mediazione del “cuore” del figlio del padrone. Il motto che conclude il film è infatti: “Il mediatore tra la testa e le mani deve essere il cuore” e racchiude la filosofia di Lang. Nessuna rivoluzione né rovesciamento di potere, dunque, ma armonia per un obiettivo di riformismo classicamente paternalista
Differenze sostanziali che riflettono anche i contesti: Sciopero è parte della macchina culturale stalinista, Metropolis nasce nella fragilità della Repubblica di Weimar dove conviveva la paura del bolscevismo e la nostalgia per il vecchio ordine imperiale.