di Marcello Cecconi
Leggo che fra i papabili ci sono cardinali che parrebbero assicurare una continuazione di Francesco. Di certo ci saranno anche “loro”, non pochi, che invece lo applaudivano senza seguirlo e che ora tireranno un sospiro di sollievo meditando di togliere dalla tasca gli arrugginiti catenacci affinché la Chiesa si richiuda, affinché il linguaggio torni criptico e la fede torni a perdere ogni rapporto con la realtà esterna, affievolendo quella tensione verso “gli ultimi”.
È questa la contraddizione che potrebbe esplodere oggi, alla fine del pontificato di Francesco: un Papa comunicatore e profeta dentro una Chiesa che tornerebbe così a comunicare poco e a proteggersi molto. Lui per una Chiesa povera e per i poveri e “loro” per una Chiesa forte e per pochi. Lui alla ricerca di una strada in comune e “loro” con un palazzo da difendere. Immagino già di sentire l’eco di cardinali che alzano le voci e abbassano le maschere.
Francesco conosceva la forza della comunicazione e l’ha usata non per autopromozione ma per scardinare il non detto, il sommerso, le omertà che la Chiesa aveva imparato a chiamare “prudenza”. Francesco ha fatto della trasparenza il suo vangelo laico. Ha parlato a braccio, ha pianto in pubblico, ha chiesto perdono, ha aperto le porte e abbassato i toni. Lo ha fatto in un’epoca in cui le istituzioni gridano per farsi sentire mentre lui sussurrava per essere ascoltato.
È stato un comunicatore della semplicità, capace di trasformare la pastorale in linguaggio contemporaneo facendo sì che la Chiesa cessasse di parlare in codice. “Meglio una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, che una Chiesa malata per la chiusura”, scriveva in Evangelii Gaudium. Ha affrontato a viso aperto i drammi del nostro tempo: povertà, guerre, migrazioni, cambiamento climatico, scandali interni.
Sempre con parole semplici, dirette, comprensibili. Sempre con uno stile comunicativo che faceva della trasparenza un principio guida. “La Chiesa deve continuare a correre. Non deve fermarsi.” aveva detto Francesco durante il Sinodo del 2015, segnando quello che oggi è un’eredità importante che rischia di essere vanificata: la divisione tra la fede come testimonianza viva e la religione come istituzione immobile.
E se anche da stamani in San Pietro, nella sua rigidità, Francesco continua a comunicare umiltà e vicinanza ai fedeli grazie al suo volto sereno e a quella posizione in basso della sua bara, intorno a lui potrebbe iniziare una vecchia sinfonia. E se così fosse ci sarebbe qualcosa di stonato in questa sinfonia perché la partitura di questo Papa, diretta al mondo intero, continuerebbe a vibrare da sola con l’orchestra vaticana in difficoltà a tenere il tempo.
Con la sua voce che si spegne c’è anche la possibilità che si torni alla “Chiesa-fortezza”, quella dei corridoi vaticani con i compromessi sottobanco, quella degli sguardi che salutano e intanto contano. C’è il rischio che la corsa rallenti e che la polvere ricopra di nuovo la parola “fede”.
La morte di Bergoglio fa nascere la vera domanda. Chi raccoglierà il testimone avrà il coraggio di correre, davvero, dentro la storia e non fuori dal mondo?
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