di Agostino Forgione
Mi sono laureato nel novembre di due anni fa. Ho chiesto esplicitamente agli invitanti, anche abbastanza perentoriamente, di non azzardarsi a portare alcun tubo spara-coriandoli da utilizzare nel corso dei festeggiamenti. Già dai miei primi giorni di università, passeggiando nei giardini antistanti la facoltà, il luccichio metallizzato dei coriandoli che, prepotentemente, rimanevano sempre lì, immobili, tra i fili d’erba, mi repelleva.
Per mesi assistevo alla loro stratificazione: arrivavano le sessioni di laurea e nei giorni seguenti i coriandoli erano avvinghiati ai fili d’erba. Col passare del tempo, poi, si avvicinavano sempre più al terreno, continuando però a brillare tra la invece opaca flora circostante. Infine, dopo svariate piogge, la fanghiglia finiva per fagocitarli, pronti a decomporsi in microplastiche.
Quando accadeva era il momento di altre lauree e di altri coriandoli, pronti ad alimentare i giardini del San Niccolò. Non tutti però facevano questa fine: una piccola parte, infatti, veniva raccolta dall’addetto alle pulizie prima di cadere nei tombini o nel prato.
Per tre anni, in sunto, mi sono ripromesso di non contribuire a tutto ciò, se mai mi fossi laureato. Ebbene, quando quel giorno è arrivato, nonostante tutti i miei avvertimenti un tubo spara-coriandoli fece lo stesso capolino tra bicchieri e bottiglie di spumante. Mi sono imposto, affinché non lo utilizzassero, sia con una mia amica, che mi ha rinfacciato di aver speso quei soldi con l’intenzione di fami sorpresa gradita, sia con mia madre, per cui la mia figura tra una nube di coriandoli avrebbe costituito un quadretto assai gradito.
Alla fine, lasciando con l’amaro in bocca sia la prima che la seconda, ho vinto io.
Voglio forse una medaglia? Non mi spiacerebbe in effetti, ma non è questo il punto. La questione gira attorno ad una domanda che mi pongo, insistentemente, ogni qual volta mi passa sotto gli occhi un neo-laureato intento a crogiolarsi tra centinaia di coriandoli che gli si posano sui vestiti e impigliano tra i capelli: come ha fatto questo a conseguire una laurea, a prescindere dal corso di studi, rimanendo completamente miope a uno dei temi più salienti del nostro periodo?
Se lo scopo dell’università è anzitutto quello formare coscienze critiche, al di là dell’aspetto prettamente nozionistico, direi che qualcosa che non va.
L’ho pensato l’ultima volta qualche giorno fa, guardando una ragazza tutta adornata con la sua bella coroncina dall’alloro in testa che, con estrema teatralità, aspettava che i suoi seguaci la acclamassero con inni e coriandoli.
Quest’ultimi, arrivati in gran quantità, sono caduti esattamente a qualche centimetro dal cartello che invitava ad astenersi dal lanciare i suddetti. ”Se questa avesse un intelletto pari solo alla metà del suo ego qui davanti a me avrei un genio”, ho pensato.
Una scena, quella appena descritta, che si ripete identica in tutti i piazzali delle università italiane, da nord a sud. Una piccola cosa, si potrebbe commentare, un’inezia di fronte alla vastità del problema dell’inquinamento da plastiche. E, di fatto, probabilmente lo è.
Una piccola cosa che, tuttavia, che viene ampiamente ignorata proprio da coloro che verso le piccole cose dovrebbero avere maggiore sensibilità. La sensibilità, anche, di voltare le spalle all’uso comune di questi oggetti per i festeggiamenti, anche a costo di scontentare qualcuno.
Inevitabilmente, quanto scritto finora, porta a chiedermi cosa sia oggi il sistema universitario italiano. Probabilmente, e purtroppo, per una buona fetta tanta forma, tanti coriandoli, e poca sostanza.