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Quando i nativi americani furono relegati nelle riserve

Era il gennaio del 1876. Per quanto oggi il mito dei pellerossa sia spesso oggetto di un edulcorato culto, non bisogna dimenticare la violenza perpetrata nei loro confronti da parte degli Stati Uniti.

Un indiano del Dakota
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Agostino Forgione Modifica articolo

5 Febbraio 2024 - 16.21


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Il 31 gennaio 1876, 148 anni fa, i nativi americani furono confinati nelle riserve loro imposte dal governo degli Stati Uniti. Prima dell’arrivo dei conquistatori, in quel fatico ottobre  del 1492, la loro popolazione toccava i 10milioni. Dopo quattro secoli di soprusi da parte dei colonizzatori europei, gli indiani scesi ormai a 250mila, furono costretti a trasferirsi in zone loro destinate con l’ordine di non potersi stanziare altrove. Il numero dei nativi era sceso non  solo per effetto delle epurazioni degli occidentali ma anche per le malattie dagli stessi importate dal Vecchio Mondo, alle quali gli indigeni non erano abituati.

Sebbene non manchino documentazioni più precise circa le atrocità commesse sulle popolazioni native, si pensi che una delle prime, dal titolo “Brevísima relación de la destrucción de las Indias”, fu scritta dal frate domenicano Bartolomé de Las Casas nel 1542, è di recente che il tema è divenuto di dominio pubblico. È solo nel 1975, infatti, che per mezzo del Self-Determination and Education Assistance Act, gli Usa hanno riconosciuto le oppressioni perpetrate nei confronti delle varie tribù, concedendo loro maggiore autonomia.

Ed è sempre solo negli ultimi decenni che il mito della conquista del West, spesso ritratto nella cultura popolare dipingendo i coloni come “eroi” e i nativi come dei “barbari”, è stato rivisitato in un’ottica maggiormente critica. Perché gli indiani furono confinati nelle oasi? Le motivazioni sono plurime, e vanno ricercate sia nella volontà di assoggettare e assimilare le tribù, col fine deliberato di far sparire i loro usi e costumi, ma soprattutto nella volontà di arricchirsi. Gli sconfinati territori nord-americani, rappresentavano delle vere e proprie miniere auree a cielo aperto, che hanno foraggiato ingentemente le casse degli Sati Uniti.

Sono centinaia i chilometri quadrati espropriati alle popolazioni che per secoli li hanno abitati, luoghi spesso considerati sacri. È il caso, ad esempio, delle famose Black Hills, una catena montuosa che si estende dal Dakota del Sud fino al Wyoming. A seguito della prima spedizione del 1847, quando George Armstrong Custer e i suoi uomini scoprirono la ricchezza del territorio, i Lakota, che abitavano e veneravano il territorio, furono relegati contro il loro volere nelle riserve nel Dakota del sud ovest. Come se non bastasse, l’attività mineraria ha anche causato profondi danni ambientali, che in parte si riverberano ancora oggi, per via delle sostanze chimiche utilizzate come mercurio e cianuro.  

Sappiamo che commentare la storia a posteriori facendo ricorso solo al “senno del poi”,  è un’attività che può avere senso solo se messa in relazione all’oggi. L’augurio, in questo caso, è che il 31 gennaio diventi per gli Stati Uniti un momento di riflessione circa il proprio ruolo nella geopolitica contemporanea. Al di là di ogni becero nazionalismo e, come per ogni altra cultura, l’auspicio è che nessuno dimentichi mai la relatività del proprio punto di vista.

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