“Anatomia di uno scandalo” è un lungo film da guardare in una sera che non lascia il segno
Questa serie Netflix è fresca di uscita, precisamente il 15 aprile. È un legal drama tratto dall’omonimo romanzo di Sarah Vaughan e prodotto dalla Made Up Stories. Vede Sienna Miller, Rupert Friend e Michelle Dockery nel cast principale, ed è sviluppato da David E. Kelley (marito di Michelle Pfeiffer) già dietro a successi come “Big Little Lies” e “The Undoing”, in collaborazione con Melissa James (“House of Cards”).
Ambientata nell’elitario mondo della politica britannica, la serie è incentrata sulla vita dei coniugi James (Rupert Friend) e Sophie Whitehouse (Sienna Miller), che viene sconvolta quando lui viene accusato di stupro dalla sua ex assistente ed ex amante.
Onestamente, la serie è abbastanza insipida, cioè non sa di niente. Come per tante altre molto simili tra loro, tra un mese mi sarò già scordata di cosa parlava. Questa, immagino, sia una delle pecche delle nuove piattaforme streaming: producendo costantemente migliaia di prodotti è inevitabile inciampare nella ripetitività. La cosa positiva è che la serie è talmente breve che è come guardare un film abbastanza lungo, in una serata un po’ “smorta”.
Solo una cosa mi ha veramente allarmata. Le puntate si svolgono per lo più in un’aula di tribunale, durante un processo per stupro in cui il Ministero è l’imputato, o almeno dovrebbe, e l’ex assistente sarebbe la vittima. L’unico elemento che accomuna accusa e difesa, e intorno cui ruota l’intero processo, è se sia avvenuto o meno che, al momento dell’atto sessuale, la ragazza abbia detto chiaramente “no” (della serie “non qui”), oppure sia stata in silenzio. Nel primo caso, vorrebbe dire che è stata stuprata, nel secondo che era consenziente.
Allora mi sono chiesta: affinché un atto sessuale sia ritenuto violenza bisogna per forza pronunciare ad alta voce “no” altrimenti siamo complici? E allora che ne è di tutte quelle ragazze che, invece di dire no, si sono dimenate, hanno pianto o addirittura si sono completamente bloccate per lo shock? Quelli non erano stupri?
Me lo chiedo e ve lo chiedo. Possibile che deve essere solo la donna a dover dire “no” ad alta voce e non anche l’uomo a dover comprendere quando un limite viene superato a prescindere da ciò che dice l’altra parte?
La società distopica de “The Handmaid’s Tale” in cui la donna è un oggetto, che non è poi tanto distopico
The Handmaid’s Tale è una serie televisiva statunitense targata Hulu, ideata da Bruce Miller e basata sul romanzo distopico del 1985 “Il racconto dell’ancella”, dell’autrice canadese Margaret Atwood, sulla scia di un George Orwell al tempo già famosissimo.
La serie è stata nominata e ha vinto decine di premi, apprezzatissima da pubblico e critica, tanto che proprio in questi mesi si stanno svolgendo le riprese per la quinta stagione. Sul sito Rotten Tomatoes, la prima stagione ha ricevuto il 94% di recensioni positive mentre su Metacritic ha accumulato un punteggio di 92/100.
In un futuro distopico, il tasso di fertilità umana è in calo a causa di malattie e inquinamento. Dopo una guerra civile, il regime teocratico totalitario di Gilead prende il comando degli Stati Uniti d’America. La società è organizzata gerarchicamente e divisa in nuove classi sociali, in cui le donne sono le ultime degli ultimi: non possono lavorare, leggere o maneggiare denaro.
A causa dell’infertilità e del crollo delle nascite, le donne fertili, ribattezzate “Ancelle”, sono assegnate alle famiglie elitarie dove subiscono stupri rituali da parte del proprio padrone con lo scopo di dargli dei figli. June Osborne (Elizabeth Moss), ribattezzata Difred (“di proprietà di Fred”), viene assegnata alla casa del Comandante Fred Waterford e di sua moglie Serena Joy. In un’alternanza tra flashback e presente, June ricorda il tempo in cui conduceva una vita normale con il marito e la figlia e fa di tutto per riprenderla e fuggire in Canada, dove molti altri americani sono stati accolti come rifugiati politici.
Questa serie è un vero gioiello. La trama è intricata e senza spazi bianchi, come solo le opere non originali possono essere. La società di Gilead ideata da Margaret Atwood è atroce quanto brillante nella struttura. C’è simbolismo in ogni scelta narrativa, a cominciare dai colori degli abiti, come il rosso assegnato alle Ancelle, che evoca la fertilità e la riproduzione, allo stesso tempo è il colore del peccato sessuale (già utilizzato in letteratura con “La lettera scarlatta”).
Il fondamentalismo di Gilead interpreta letteralmente i dettami dell’Antico Testamento, non contempla la possibilità che esistano uomini sterili, solo donne sterili, anche dette “non donne”. Gli omosessuali sono considerati “traditori di genere”, mentre le donne fertili sono meri contenitori del “frutto benedetto”.
Ma la verità è che “The Handmaind’s Tale” è così attuale che fa paura, perché i paesi che non solo accettano, ma promuovono l’inferiorità della donna sono tanti e non ce ne rendiamo conto. Troppe società associano le donne a matrimonio e maternità, impongono loro come vestirsi, cosa dire, cosa fare. Nel mondo, la donna è ancora svantaggiata rispetto all’uomo, eppure in molti decidono di rimanerne indifferenti. D’altro canto, ondate di lettrici hanno visto nella Atwood un’icona femminista, rivendicato il romanzo “come simbolo della resistenza”, tanto che il costume rosso delle Ancelle è diventato divisa di ogni protesta sessista negli Usa e oltre.
Vi lascio con una citazione del romanzo, su cui riflettere: “Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà. Nulla muta istantaneamente”.