La miniserie “Solos”, fatta da struggenti monologhi, ricorda le piéces teatrali
“Solos” (Assoli) è una miniserie antologica in 7 puntate, prodotta e distribuita da Prime Video. La serie, a sfondo sci-fi e creata dal David Weil, vanta nel cast attori del calibro di Morgan Freeman, Anne Hathaway, Helen Mirren, Anthony Mackie e Dan Stevens.
Ambientata in un futuro distopico e tecnologicamente avanzato, la serie dedica ciascuna puntata ad un personaggio diverso, il quale affronta sé stesso in uno struggente monologo di autoanalisi.
Un prodotto molto particolare, di difficile lettura. “Solos” non è narrativa: nel corso delle puntate non si sviluppa nessuna trama. Ogni capitolo è isolato, ogni personaggio dialoga con sé stesso attraverso monologhi che ricordato più gli spettacoli teatrali che i prodotti televisivi odierni. Ogni puntata inizia con una domanda, uno spunto di riflessione esistenziale che riguarda l’argomento dell’episodio.
È stato complicato seguire la serie fino alla fine. Confesso che ero tentata di non finirla. Non essendoci una storia che si sviluppa nel corso delle puntate, lo spettatore non si pone la domanda “Chissà cosa succede dopo”. Nell’epoca delle piattaforme streaming, con infiniti cataloghi di prodotti in competizione tra loro per attirare l’attenzione del pubblico, inserire una mini-serie “senza trama” e “senza tempo” è insolito.
Tuttavia, grazie ad una sceneggiatura che ricorda le piéces teatrali, ogni monologo mi è entrato nella testa, ho trovato un po’ di me in ciascuno dei personaggi. Forse è questa la particolarità di “Solos”: riuscire a rappresentare in maniera universale paure e dolori, rimpianti e rimorsi delle persone. Fa capire che, nonostante l’apparente solitudine di ciascuno di noi, siamo tutti connessi.
Torna “Bridgerton” con una nuova storia d’amore, la serie statunitense la più vista di sempre su Netflix
“Bridgerton” è una serie statunitense creata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes (“Grey’s Anatomy”, “Le regole del delitto perfetto”) basata sui romanzi di Julia Quinn, ambientati nel mondo dell’alta società londinese dell’800. Narra le vicende della famiglia Bridgerton: Lady Violet, i suoi quattro figli Anthony, Benedict, Colin e Gregory e le sue quattro figlie Daphne, Eloise, Francesca e Hyacinthe. Ogni romanzo della Quinn è dedicato a uno dei fratelli Bridgerton e alla loro ricerca di marito o moglie. La serie, in questo, segue alla lettera i libri, perciò, mentre la prima stagione era dedicata a Daphne, la seconda (appena uscita) è dedicata ad Anthony, il fratello maggiore.
Per quanto chiari siano i richiami ai romanzi classici di Jane Austin, la serie ne rappresenta una versione più moderna e improbabile, un’”americanata” la chiamo io. Siamo ben lontani, infatti, dall’austera società inglese della Austin, dall’anticonformismo delle sue protagoniste.
La società inglese ritratta da Bridgerton è meno casta, più leggera, più simpatica persino.
Non ci sono grandi prestazioni attoriali o messaggi profondi dietro a questa serie; ma nonostante la sua frivolezza (o forse proprio grazie ad essa) è la serie più vista di sempre di Netflix, seconda solo a “Squid Game”.
Il “fenomeno Bridgerton” mostra che, per conquistare un pubblico generalista, puntare sulle storie d’amore funziona sempre. Originale la scelta di mescolare espedienti narrativi classici e moderni, come i costumi sfarzosi degli ambienti aristocratici e le ballads di Ed Sheeran in sottofondo.
Il successo di questa serie è emblematico rispetto ad altre perché mostra che il pubblico ha bisogno di leggerezza, di trame meno elaborate che favoriscano il rilassamento; e alla fine, dopo questi ultimi due anni, è più che comprensibile.