di Gabriella Piccinni
Mentre scrivo queste righe per la quarta volta la curva dei contagi ci ha trascinato nel “giorno per giorno”, a monitorarne gli effetti a breve termine, di nuovo rinviando ad altri momenti l’analisi dei cambiamenti prodotti da questo enorme ‘episodio’ di dimensione mondiale.
Qualcuno però sta già cominciando a lanciare sguardi sul lungo periodo. “La pandemia sanitaria si sta trasformando nella pandemia della disuguaglianza” è l’allarme lanciato dall’Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, che è rimbalzato in poche ore da una testata di giornale all’altra, da un Tg all’altro. I dati parlano chiaro, chi era ricco è oggi molto più ricco di due anni fa perché ha trovato il modo di beneficiare della crisi sanitaria. I più poveri, invece, stanno sempre peggio. Probabilmente se qualcosa non cambierà la forbice si allargherà, e andrà ancora peggio. È questo l’effetto sociale principale della pandemia.
Eppure, avvertono all’Oxfam, guai a considerare la disuguaglianza una fatalità. Hanno ragione, perché se finiamo per convincerci che la crescita esponenziale di ingiustizia alla quale assistiamo è tutta colpa del virus, potremmo dimenticare che il sistema economico e ambientale in cui vivevamo era già fragile, quanto era fragile, in definitiva, tutto quello che consideravamo la normalità. Alcuni dei più provocatòri economisti dei nostri anni, come il francese Thomas Piketty o il premio Nobel americano Joseph Stiglitz, del resto, stavano già da tempo denunciando che è il modello di crescita dell’occidente il grande generatore di un mondo diseguale.
Smettiamo, perciò, di dare tutte le colpe alla pandemia, che ha potuto fare il suo sporco lavoro sociale solo perché ha trovato un’economia che aveva già dilatato a livello globale la forbice dei redditi e sistemi politici che già avevano messo in discussione molti dei risultati di benessere sociale che si erano ottenuti nel XX secolo. Ha potuto colpire più duro perché il welfare system, che è uno dei pilastri sui quali si è basato il modello delle democrazie occidentali del secondo dopoguerra, era già tramontato sotto i colpi di un capitalismo globalizzato, impazzito e senza freni.
Cerchiamo qualche spunto nel consueto tuffo nel passato e proviamo a chiederci, per esempio, se quello che accadde in Europa dopo il 1348 fu solo colpa della peste nera: se solo l’epidemia, cioè, determinò il calo della popolazione, l’abbandono delle coltivazioni, il tracollo di tante attività manifatturiere che non seppero riconvertirsi, i fallimenti bancari…
Non è così, quell’anno tragico è, per noi che guardiamo i fatti antichi con il privilegio della distanza, una lente di ingrandimento su trasformazioni che già erano in atto. Prendiamo l’aumento del numero dei poveri. Quando arrivò la peste già da un secolo e più se ne parlava come di un problema sociale importante. Alla metà del Duecento due giudici, il fiorentino Bono Giamboni e Albertano da Brescia di cui era seguace, pensavano che trovare i modi per redistribuire la ricchezza fosse un dovere civile, e arrivavano ad auspicare una condivisione delle risorse grazie alla quale tutti avrebbero avuto il necessario per vivere e nessuno più sarebbe stato costretto a mendicare. Si era trattato di pensatori che riconoscevano che il disagio sociale era aumentato anche se il loro mondo sembrava vivere allora una lunga stagione di crescita economica.
Le premesse del disagio sociale, insomma, c’erano già tutte quando arrivò la peste. Era aumentato il numero dei salariati, precari e mal pagati, con pochi o nulli diritti; la gente veniva ingaggiata in strada, soprattutto nei grandi cantieri pubblici delle mura, delle strade o delle cattedrali, come quegli operai parigini che aspettavano l’offerta di lavoro sulla piazza, malvestiti e tremanti di freddo nell’inverno del 1260, quando gli alberi avevano già perso le foglie. Anche la terra era stata sfruttata al suo massimo e rendeva ormai troppo poco. E chi aveva denaro aveva scoperto che la fame altrui offriva nuove occasioni per arricchirsi, perché lo poteva prestare a strozzo o poteva imboscare il grano per farne lievitare il prezzo, impoverendo ancora la parte dei consumatori che non era in grado di sostenerne la spesa.
La peste del 1348 perciò non fu la causa dei tanti problemi, ne fu l’evidenziatore, tutt’al più il violento acceleratore. In questo caso la lezioncina della storia è che dobbiamo essere guardinghi rispetto alla facilità con cui la nostra mente costruisce relazioni di causa-effetto, perché attribuire tutta la responsabilità a un virus può farci dimenticare e sottovalutare che quando il solco delle diseguaglianze si fa più profondo è alle strutture dell’economia e della società che bisogna guardare.
Non serve a molto, insomma, lanciare maledizioni alla pandemia se insieme non avviamo anche una critica seria del sistema capitalistico privo di regole che ci ha portato fino a qui. Senza un ripensamento della società, delle sue forme e dei suoi modelli. Senza prendere le distanze da quel ‘pensiero unico’ neoliberista che ci vorrebbe condurre al fatalismo, ci vorrebbe condurre a pensare che il valore economico sia per forza di cose l’unico discriminante tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che fa del bene alla società e ciò che le fa del male, a credere che il mondo in cui di volta in volta viviamo sia sempre l’unico mondo possibile, in definitiva a rinunciare ad ogni prospettiva di cambiamento.