di Giuseppe Castellino
L’economista Angelo Riccaboni è stato Rettore dell’Università di Siena dal 2010 al 2016; ha coordinato attività internazionali nel campo dell’alimentazione e dell’ambientalismo; è presidente del Comitato d’indirizzo del Santa Chiara Lab e presidente della Fundaciòn PRIMA con sede a Barcellona. Insomma, la persona più adatta alla quale rivolgere domande sull’attuale delicato passaggio per i destini del pianeta e dell’alimentazione nel mondo.
È stata una stagione di summit prima con il G20 poi con COP26: qual è il giudizio sui risultati raggiunti? E quale giudizio dà sull’insoddisfazione che regna tra i giovani rispetto a questi risultati, che trovano espressione nei ” bla bla bla “di Greta Thumberg?
Ci sono stati, a dire il vero, anche altri appuntamenti internazionali: il Food System Summit a settembre e il G7 a giugno. Quindi è una stagione molto attiva dal punto di vista dei processi internazionali. È vero che questi eventi si concludono spesso con dichiarazioni che sembrano non avere a che fare con la vita di tutti i giorni, però ci sono degli argomenti che sono importanti ed hanno ricadute sulla vita di tutti i giorni. Per esempio, una delle più grandi conclusioni di questi eventi che sta emergendo è che si riconosce che non ci sono soluzioni one size fits all, non ci sono soluzioni che sono valide in tutti i contesti per tutte le situazioni. Per far fronte ai grandi temi che abbiamo di fronte (cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, nutrizione, decarbonizzazione etc.) dobbiamo trovare delle soluzioni che sono riferite a contesti diversi e con soluzioni ad hoc che tengano conto delle differenze. Quindi, il rispetto delle differenze è un tema emerso. Altro tema di estrema importanza è il multilateralismo: solo se lavoriamo insieme, ci riusciamo. Questi non sono risultati da poco perché un mondo fatto di cooperazione forse ce la può fare, un mondo invece fatto di tensioni e di mancanza di cooperazione è difficile che riesca ad affrontare questi argomenti. Un ulteriore tema emerso è forse che c’è maggior consapevolezza che queste sfide hanno anche contenuti sociali importanti, e prima probabilmente mancava. Il problema è questo, ma se non te lo poni non troverai mai la soluzione. Prima si diceva “Bisogna decarbonizzare”, “bisogna lavorare per ridurre gli effetti del cambiamento climatico”. Obiettivi sacrosanti, però forse non ci si rendeva conto che queste cose qui, che i giovani fanno bene a reclamare, se le fai hanno degli impatti sociali notevoli. Ora abbiamo capito che dobbiamo trovare soluzioni non solo alle grandi sfide tecnologiche e ambientali ma anche a questi temi di tipo sociale. Questo è anche dovuto al Covid, il quale ci ha fatto capire che basta un 10% di persone che si oppongono per rendere ogni sforzo vano. Se vogliamo fare la decarbonizzazione, non possiamo avere il 30% contro. Dovremmo avere tutti a favore, perché così come non passa il vaccino non passerebbero nemmeno altre misure. Per averle a favore però devi evitare che queste persone soffrano. Nessuno deve essere lasciato indietro come dice il primo punto del SDG (Sustainable Development Goals), bisogna fare in modo che la parte sociale venga presa in grande considerazione. Questo vuol dire anche investimenti pubblici, presenza dello Stato e tutte altre cose che prima del Covid non erano considerate.
Lei è presidente di Prima. Qual è il ruolo che svolge Prima sia in ambito nazionale che internazionale?
Come diceva il Commissario europeo precedente alla ricerca e innovazione Carlos Moedas, il programma PRIMA (Partnership for Research and Innovation in the Mediterranean) è la più ambiziosa iniziativa di diplomazia scientifica mai lanciata nel Mediterraneo. Iniziativa estremamente ambiziosa con un budget di 500 milioni di euro e che promuove ricerca e innovazione nell’agrifood. A livello internazionale è vista come uno dei tasselli per aiutare l’area del Mediterraneo che per troppo tempo è stata trascurata con tutte le conseguenze che ora abbiamo. Non dimentichiamo che ci sono voluti 5 anni per creare PRIMA e abbiamo avuto la spinta determinante quando si è capito che solo aiutando i Paesi della costa sud a innovare in uno dei settori più importanti per la loro economia come l’agrifood, potevamo contribuire allo sviluppo economico di quelle aree. PRIMA è visto anche come parte della risposta nei confronti dei processi di immigrazione. È ovvio: se noi non aiutiamo questa gente a crescere economicamente, a sviluppare una loro economia, a sviluppare la loro sicurezza ed autonomia alimentare non avremo risultati soddisfacenti. Non risolvi tutto con PRIMA, ma tante cose una a fianco all’altra possono aiutare. Se ne fanno poche finora, ma PRIMA c’è. Ci sono già alcune cose, ma ne servono altre. Noi aiutiamo questi Paesi a crescere, ma se pensiamo che l’unico modo è quello di mettersi lì con il bastone e rimandarli indietro temo che nei prossimi anni vedremo delle cose piuttosto impegnative.
Lei ha giustamente tirato in ballo il discorso dell’agrifood. Può spiegare qual è il rapporto tra sostenibilità climatica e agroalimentare?
C’è un rapporto biunivoco. L’agrifood purtroppo contribuisce ai cambiamenti climatici. Sebbene in Italia ci sia stato per diverso tempo una visione bucolica dell’agrifood, negli altri paesi non lo era di certo. Ora ci siamo resi conto anche in Italia che l’agrifood contribuisce più o meno ad un terzo delle emissioni globali di CO2, contribuisce ad una perdita di biodiversità, contribuisce alla malnutrizione dei nostri concittadini. L’agrifood quindi impatta su tante cose tra cui il cambiamento climatico, e dobbiamo ridurre questo impatto, dobbiamo mitigarne gli effetti. Dall’altro però viene impattato dal cambiamento climatico. Stagioni più secche o piogge torrenziali o cambiamenti del clima hanno un impatto sui raccolti e i modi di coltivare. Questo è altrettanto devastante se come è successo adesso alcuni paesi non producono frumento e altre materie prime, l’impatto sulle economie e sul benessere delle persone può essere pesantissimo. Adesso per esempio ci sono stati dei raccolti molto ridotti, e questo purtroppo fa aumentare i prezzi e riduce il benessere.
Secondo lei, noi come Italia come stiamo affrontando questo periodo di crisi?
L’Italia dal punto di vista dell’agroalimentare per certi versi è un modello. Dobbiamo ovviamente vedere tutto con la prospettiva internazionale. Il modello del sistema agroalimentare italiano con imprese di piccole dimensioni, elevata qualità, l’attenzione ai territori che è un tema tornato d’attualità grazie al Covid sono tutte cose che esprimono qualcosa di positivo. È ovvio che anche questo modello deve far meglio, non siamo messi male ma si potrebbe fare meglio.
E a livello globale?
Purtroppo, a livello globale c’è troppo spesso una minore attenzione al rapporto con il territorio e agli altri temi della sostenibilità. Per esempio, sul biologico noi abbiamo il 16% di territori coltivati in questo modo contro una media europea dell’8% mentre l’UE ci chiede di arrivare al 25%. Questo è un esempio per dire che noi abbiamo questo tipo di sensibilità, in giro per il mondo invece meno per diversi fattori. Il tema della dieta mediterranea e del mangiare sano è quasi assente negli altri posti, noi l’abbiamo nel DNA anche se lo stiamo perdendo. Pensiamo all’USA dove questo tema è drammatico, le grandi aziende hanno consumi poco sostenibili ma quando queste vengono proposte a dei prezzi di vendita molto bassi laddove c’è una marginalità sociale avremo anche questi episodi di obesità, malnutrizione, problemi vascolari e legati alla nutrizione tipiche dove non ci sono principi come da noi.
Quale apporto gli studi universitari possono dare al rapporto complesso tra governi?
Prima che gli studi universitari, la ricerca e l’innovazione possono dare molto in questo momento. Parlando per l’Italia, noi abbiamo queste piccole imprese di qualità che devono essere sostenibili, ma devono avere anche un ritorno e un guadagno. Noi non possiamo pensare che la gente lavori nei campi solo perché ci piace vedere il territorio ben coltivato. Conciliare sostenibilità con redditività e con le piccole dimensioni, e non è facile. L’innovazione che viene dall’università è fondamentale. Però occorre anche fare in modo che le imprese abbiano accesso a queste innovazioni. L’iniziativa Siena Food Lab, promossa dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena e dal Santa Chiara Lab – Università di Siena, esprime molto bene questo passaggio. Si tratta di un progetto di alta formazione e di trasferimento tecnologico attraverso il quale siamo riusciti ad accompagnare 60 aziende senesi in un percorso di adozione di tecniche colturali e gestionali basate sull’agricoltura di precisione. Questa è una cosa che può essere fonte di grande miglioramento. Agricoltura di precisione significa utilizzare il minor numero possibile di acqua, fertilizzanti, pesticidi con interventi mirati. L’azienda risparmia, migliora ma anche l’ambiente viene meno massacrato