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Troppi morti sul lavoro: il prezzo e il valore della vita

Per secoli il valore e il costo della vita delle persone erano del tutto esplicitamente considerati diversi a seconda dell’appartenenza sociale e di gruppo. E ora siamo tornati lì

Troppi morti sul lavoro: il prezzo e il valore della vita
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Giacomo Todeschini Modifica articolo

4 Giugno 2021 - 21.32


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Si susseguono le morti sul lavoro in Italia. Lo sanno tutti. Un tempo si chiamavano “omicidi bianchi”. 306 nel primo quadrimestre del 2021. La pandemia c’entra ben poco, visto che nel 2017 ce n’erano stati 86 al mese, in media. Il presidente degli Stati Uniti Biden, anche questo è ormai risaputo, ha proposto la cancellazione dei brevetti farmaceutici dei vaccini per arginare una pandemia che sta sterminando la popolazione dei paesi più poveri (e che minaccia quindi in prospettiva la popolazione dei paesi più ricchi che i vaccini possono comprarseli ma che hanno anche bisogno di manodopera immigrata a basso costo, ovverosia povera e dunque impossibilitata a curarsi come si deve). 

Queste due notizie in apparenza diverse parlano anche a chi non vuol sentire di un mondo e di un mercato che prevedono una differenza fra il valore della vita delle persone. Intendendosi con valore sia il pregio delle vite dal punto di vista degli affetti familiari e sociali, sia il prezzo delle vite considerato dal punto di vista del costo del lavoro che le rende possibili ossia vivibili. 

Questa grande diversità tra valore della vita delle persone coesiste con numerose dichiarazioni del diritto degli abitanti della Terra ad essere considerati uguali. In altre parole, come fra cittadinanza e appartenenza reale a una città o a uno Stato c’è una differenza enorme (che dipende, per esempio dal potere d’acquisto ossia dal portafoglio, oppure dalle capacità intellettuali, dalla famiglia che si ha alle spalle eccetera), così anche fra valore effettivo e valore di principio delle persone la divergenza è grande. E’ una doppia verità ben nota, ma non troppo ricordata nei discorsi pubblici. La contraddizione è tanto più esplosiva in un mondo e in un mercato fondati su logiche della globalizzazione e quindi sul presupposto che tutti devono e possono partecipare alla realizzazione della ricchezza collettiva. Non a caso l’espressione “bene comune” affiora di continuo nei lessici della politica e dell’economia.

In altre epoche, e cioè nel lungo medioevo che si stende per secoli prima della attuale modernità, il valore e il costo della vita delle persone erano del tutto esplicitamente considerati diversi a seconda dell’appartenenza sociale e di gruppo. Quando ci si soffermava – come avviene negli scritti di economia del Duecento e del Trecento o del Quattrocento – sul valore del lavoro e della vita delle persone, si diceva tranquillamente che questo valore dipendeva dalla collocazione sociale e che, per esempio, una mano o un braccio mutilati in seguito a un incidente sul lavoro dovevano essere risarciti in proporzione al valore che il lavoro svolto da quella mano e da quel braccio e da quella persona avevano dal punto di vista del mercato. Che insomma il diritto alla vita e alla salute era relativo al valore sociale ed economico delle persone.

L’attuale durezza delle condizioni di vita di milioni di persone, la facilità con la quale si può morire svolgendo lavori fondamentali eppure poco retribuiti e malsicuri, oppure a causa dell’impossibilità di curarsi se si è malati, ci parlano di una continuità fra passato remoto e presente quotidiano che persiste nonostante il dilagare contemporaneo delle dichiarazioni umanistiche e morali? 

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