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Perché i Maneskin ti entrano in testa, ma diversi da chi?

I ragazzi sul palco saranno anche fuori di testa. Hanno vinto perché sono diversi dai “loro” sanremesi, ma soprattutto perché sono finalmente diventati uguali agli “altri”.

Perché i Maneskin ti entrano in testa, ma diversi da chi?
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23 Maggio 2021 - 18.56


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di Stefano Jacoviello*

 

L’Eurovision Song Contest, si sa, è un complesso meccanismo mediale che mescola produzione musicale, marketing televisivo – con tutte le sue attuali propaggini digitali –, politica e diplomazia internazionale. Per questo gli italiani, a cui piacciono piuttosto le sagre e si affezionano alle dispute fra ugole d’oro, ci sono andati sempre mal volentieri e senza crederci troppo. Al di là della assiduità degli ultimi anni, imposta dalla globalizzazione del morente mercato discografico, si ricordano ancora i teneri passaggi di voce fra Alice e Battiato, sperduti nel 1984 su un palco statico e desolato quasi quanto i paesaggi di confine attraversati da “I treni di Tozeur”. E dimentichiamo sbadatamente l’ultimo vincitore italiano, Toto Cutugno, che annusata l’aria dopo la caduta del muro di Berlino decise di presentarsi nel 1990 con un inno visionario sul futuro dell’Europa unita: progetto politico che ha poi mostrato una consistenza non tanto più solida della retorica di quella canzone.

Nonostante i movimenti culturali della seconda metà del Novecento abbiano tentato di farne piazza pulita invano, per la maggior parte degli italiani vige ancora la convinzione che l’arte, soprattutto quella popolare, debba essere espressione immediata di quell’umanesimo semplificato ammannito nella scuola dell’obbligo. Una sensibilità irrefrenabile a noi congenita, ma buona per tutti, che nelle canzoni si trasfigura nei soliti cuore e amore, la tristezza amica della malinconia, la solitudine… e la mamma, che tutti quanti volenti o nolenti hanno incontrato almeno una volta nella vita. Per questo i cantanti devono essere spontanei, raccontare la loro storia, parlare in prima persona dando voce a chi non ce l’ha.

Così il pubblico italiano ha potuto ben gioire vedendo i Måneskin in cima al podio dell’Eurovision, con un moto d’orgoglio nazional-popolare trasversale a tutti gli orientamenti politici, felici e ancora un po’ confusi dalla botta della pandemia. Una fierezza d’animo supportata e giustificata anche dal meccanismo di voto: in barba alle giurie di qualità, rivelatesi impunemente francofile dopo la Brexit, sono stati proprio gli altri popoli a votare “noi” italiani, poeti, artisti, ridotti a navigator.

In attesa di riuscirsi a collegare con i vincitori a Rotterdam, la tv di stato mandava in diretta dagli studi di Roma spogliarelli difficili da lasciar passare, neanche ai tempi dei “campioni del mondo!”. Siparietti al limite dell’osceno, che tuttavia sarebbero stati impensabili senza il recente fermento del mondo dello spettacolo per il ddl Zan: per fortuna c’era stato il bis con i baci “liberati” del cantante Damiano a salvare la lotta per la libertà di genere dal folklore tricolore delle mutande di Malgioglio.

Mentre i social venivano immediatamente invasi da grafiche istantanee che celebravano la vittoria del gruppo, i tg e i giornali cominciavano a tessere l’epica dei giovani romani, bellocci e disinibiti, partiti dalla strada, passati per la giostra di X-Factor, già capaci di espugnare Sanremo a colpi di sano rock’n’roll. 

Non ci è voluto molto che anche i musicisti professionisti, che ultimamente si erano visti defraudare del ruolo di geni creativi dagli spippolatori elettronici della trap, hanno visto nella vittoria dei Måneskin il segno della rivincita della musica suonata: quella che devi sudare per saperla fare, che te la giochi sul palco, ad armi pari con gli altri, davanti a un pubblico che ti premia per la bravura e l’originalità.

Non bastano nottetempo i falsi scandali sulla cocaina a farli vacillare: i Måneskin sono contro le droghe, e benché siano rocker incazzati e minacciosi, tanto che ti invitano a toccarti laggiù quando vanno in scena, hanno come alleata principale la mamma, come scriveva Francesco Mangiapane su DoppioZero subito dopo Sanremo.

Dunque, gli ingredienti ci sono tutti: i Måneskin sono degli italiani veri, che hanno saputo fare il loro gioco, sgominando col talento e con la loro autenticità una pletora di ottimi cloni di glorie del passato e di voci fantasma affogate in corpi e volti da mannequin. Il tutto nell’orgia di scenografie luminose per un’Europa che include Israele, salta gli Urali e finisce in Australia.

C’è da essere contenti per la vittoria a sorpresa di un prodotto italiano in una manifestazione musicale che ha avuto e conserva tuttora una funzione eminentemente improntata alla gestione mediatica delle politiche identitarie, in un contesto internazionale dove ancora si ricorre allo scontro armato.

Non è dunque il caso di sfatare l’incanto della favola bella, anche perché se la meritano i ragazzi che hanno vinto e i loro coetanei che hanno bisogno di qualcosa per ritrovare il ritmo, dopo la sosta obbligata di affetti e progetti. Tuttavia, senza nulla togliere ai Måneskin, la loro è in realtà la vittoria della musica leggera italiana che ha finalmente trovato una generazione di producer competenti e musicalmente preparati come all’epoca dell’italodisco. Professionisti del sound capaci di competere sui mercati internazionali, invece di subirli costringendo una come Giorgia a cantare come la corista di Beyoncé.

È la vittoria di chi ha pensato che si potesse lavorare con sonorità diverse da quelle in cui si erano fossilizzati i dottor sottili del pop nostrano e confezionare un prodotto capace di rimescolare i target, dimostrandosi allo stesso tempo molto più efficaci di tanti (non tutti) improvvisati assemblatori di campioni, affettuosamente chiamati in gergo “bimbominkia”. Non è un caso che il televoto abbia premiato, in sequenza, un altro esempio di hard rock, incarnato a dire il vero da più anonimi metallari finlandesi, un turbofolk ucraino che non se ne vedevano così dai tempi della guerra di Bosnia, insieme alla dance un po’ surrealmente vintage degli islandesi. L’identità si dà per differenze. 

«La batteria che sòna pòpo come ‘na batteria, er basso che sòna pàro pàro a quello dei Who, la chitàra scrostata che, essendo elettrica, pare elettrica, er cantante che ar posto de le corde vocali c’ha ddu’ tubbi innocenti e canta come se Malena nun je l’avesse mai data…» – come scrive su Facebook con gli ironici accenti del Belli il grande percussionista Massimo Carrano rivalendosi sulle elucubrazioni di quei produttori dal pensiero debole – sono tutti tratti stilistici sapientemente selezionati da chi invece ha ricucito il suono di “Zitti e buoni” con destrezza chirurgica, inserendo ogni quattro battute un riferimento rock dall’efficacia micidiale: dai Beatles a Hendrix, dai Led Zeppelin ai White Stripes, dagli AC DC ai Queens of the Stone Age, etc. Un arrangiamento che risveglia le orecchie dei più giovani e raccoglie il plauso dei nostalgici dei bei tempi andati.

Insomma, e per fortuna, i Måneskin sul palco saranno anche fuori di testa. Hanno vinto perché sono diversi dai “loro” sanremesi, ma soprattutto perché sono finalmente diventati uguali agli “altri”.

 

* Docente di Semiotica della Cultura – Università di Siena 

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