Negli ultimi giorni il mondo ha seguito con sgomento la sorte del sottomarino indonesiano che si è inabissato al largo delle coste di Bali con 53 persone a bordo.
Proprio negli stessi giorni abbiamo appreso la notizia dell’ennesimo naufragio di migranti al largo delle coste della Libia, 130 persone almeno, annegate dopo aver trascorso due giorni su un gommone in balia delle onde. Si tratta di due eventi in qualche modo simili nella loro tragicità – di qui e di là, a uccidere è stato il mare – eppure così diversi nelle reazioni che hanno suscitato. Nel caso del sottomarino affondato, infatti, oltre l’Indonesia si sono subito mosse anche India, Malesia, Germania, America, Australia, pronte ad offrire il loro aiuto nello svolgimento delle ricerche. E non ci sono stati media al mondo che non abbiano ‘coperto’ questa scomparsa, trasmettendone le angosciose immagini. Quando si è trattato del gommone libico, invece, secondo la denuncia di Sea-Watch International, assieme ad altre Ong, sia le autorità europee che Frontex hanno letteralmente “negato” il loro soccorso. “Gli Stati si sono rifiutati di salvare i naufraghi”, accusa anche l’Organizzazione internazionale delle migrazioni dell’Onu. Quanto alla copertura mediatica, appena qualche breve servizio, poi più nulla. Eppure “è stato come navigare fra i cadaveri”, ha dichiarato Alessandro Porro, che con la Ocean Viking ha raggiunto troppo tardi il mare del disastro. Una visione spaventosa. Perché tanta differenza fra queste due tragedie del mare?
Un sottomarino che si perde negli abissi costituisce un evento raro e impressionante, degno di un film; mentre un gommone che si rovescia nel Canale di Sicilia fa parte della consuetudine. Sono decenni ormai che queste tragedie si ripetono. I paesi che fronteggiano il Mediterraneo, l’Europa, il mondo si sono ormai assuefatti a eventi del genere e niente come l’abitudine – Montaigne e Leopardi ce l’hanno insegnato – ha il potere di dominare i comportamenti degli uomini. Ma questa spiegazione non basta ancora. Il fatto è che l’equipaggio di un sottomarino, assieme allo scafo che lo ospita, costituiscono una “parte” viva della nazione a cui appartengono, in certo modo la incarnano. Un gruppo di migranti invece non rappresenta niente e nessuno, non sappiamo né chi sono né da dove vengono, sono solo dei profughi, dei fuggiaschi. A differenza di quanto accade con una nave o un sottomarino a vegliare su di loro non c’è la solidarietà nazionale, l’appartenenza, la “patria” – che anzi, la “patria” (con i suoi confini) viene invocata se mai per giustificare il respingimento dei migranti, com’è avvenuto anche in Italia. A vegliare sui disgraziati che naufragano nel nostro mare c’è solo un generico sentimento di “umanità”, ogni giorno più flebile, assieme a un fascio di leggi internazionali che, a quanto pare, le nazioni possono tranquillamente ignorare. E poi guardiamoli, quando sbarcano, i migranti. Sono disfatti, infreddoliti, spaventati, balbettano parole senza senso per noi, non sono per nulla belli a vedersi – sono esseri umani degradati dalla sofferenza e dalle privazioni; mentre un gruppo di marinai ce lo immaginiamo subito con indosso delle belle divise, sani, ben addestrati, fieri della bandiera che sventola sulle loro teste. Neppure i morti purtroppo sono tutti uguali.
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