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Il Prodotto Interno Lordo misura la crescita economica ma non il benessere (e il malessere)

Il PIL in quanto calcolo della ricchezza nazionale che non fa caso alle disuguaglianze e tanto meno alla distribuzione della ricchezza non soddisfa.

Il Prodotto Interno Lordo misura la crescita economica ma non il benessere (e il malessere)
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Giacomo Todeschini Modifica articolo

18 Febbraio 2021 - 21.15


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“Il 2021 si apre con un calo congiunturale del PIL dello 0,8% a gennaio che porterebbe a una flessione del 10,7% rispetto allo stesso mese del 2020” (AGI). Si prevede un aumento della disoccupazione e della miseria. Del resto, come si ripete di continuo da più parti, tanto da parte della Destra quanto da parte di chi si presenta come di Sinistra, la società di mercato in cui viviamo è l’unica possibile: è fatta di crescita, recessioni, sviluppo e crisi, di gente che ce l’ha fatta e di vittime, tantissime. Il Prodotto Interno Lordo ossia il criterio di misurazione ufficiale della crescita economica della nazione va dunque osservato appassionatamente, soffrendo o esultando a seconda dei casi. Ma di che cosa stiamo parlando? Esistono altri criteri di misurazione del benessere o del malessere?

In effetti, il Prodotto Interno Lordo (PIL) di una nazione negli ultimi decenni è stato affiancato da un altro indicatore di ricchezza: la Felicità Interna Lorda (FIL). Il PIL in quanto calcolo della ricchezza nazionale che non fa caso alle disuguaglianze e tanto meno alla distribuzione della ricchezza non soddisfa. Chissà come mai. Salta fuori che un paese indicato dal PIL come ricco perché il 5% dei suoi abitanti è miliardario, può ben avere dentro di sé un 70 % di poveri al limite della sopravvivenza. Nel 2019 “nel mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale … In Italia, il 10% più ricco possedeva oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali.” 

“Il concetto di FIL va ricondotto al tentativo di costruire indicatori corrispondenti alla nozione di benessere in senso lato, allargando la dimensione delle analisi oggetto della contabilità nazionale. Esso si discosta dal concetto di PIL, nel senso che quest’ultimo coglie solamente la dimensione strettamente reddituale dei rapporti sociali … il tentativo di misurare il benessere nell’accezione più estesa porta a considerare un insieme ampio di indicatori, come la mortalità infantile, l’incidenza di diverse malattie, la speranza di vita. Vi sono anche tentativi di valutare direttamente il benessere psichico attraverso variabili quali il numero di suicidi, la diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci, oppure attraverso indagini presso la popolazione che cercano di stimare il grado di soddisfazione percepito dai cittadini. Le analisi in alcuni casi tendono ad allargare lo spettro dei temi, includendo variabili atte a cogliere il grado di coesione sociale del sistema, come i tassi di criminalità, la presenza di istituzioni democratiche o il rispetto dei diritti civili.” 

Evidentemente le nozioni stesse di “ricchezza” e di “valore” sono messe in discussione da queste differenti prospettive. Se 2000 persone possiedono di più di 4 miliardi di persone vuol dire non solo che ci sono tanti poveri ma anche che il valore del lavoro di questi poveri è pressoché inesistente e che quindi dal punto di vista del PIL queste persone povere non hanno e non producono valore. In sostanza non esistono se non come probabili cadaveri.

E’ una situazione di disparità che da secoli produce crisi economiche e logiche dello sviluppo o della crescita che prima o dopo si incagliano nella miseria della maggioranza, non riconosciuta e non motivata da una minoranza di padroni della terra. Il tutto di solito si risolve in recessioni, crisi, rivolte e disperazione, dopo aver prodotto disastri ambientali ed epidemie. I rimedi, la carità, la previdenza sociale, la solidarietà, il sistema sanitario nazionale, hanno tentato e tentano in modi diversi di arginare il fenomeno della disuguaglianza e di equilibrare un mondo economico e sociale che dal “medioevo” all’attuale “modernità” resiste a ideologie e utopie, mantenendosi solidamente aggrappato a una cultura della ricchezza che la riserva ai più forti, ai più abili e agli appartenenti per diritto ereditario a famiglie o clan privilegiati. E che fa della ricchezza, delle risorse non capitalizzabili una forma di miseria da lasciare agli Indios dell’Amazzonia, agli hippies degli anni ‘70 e agli asceti di ogni ordine e grado.

Che fare per vivere in un mondo meno spietato nei confronti dei più deboli e dei meno privilegiati, della maggioranza cioè, oltre a dividere la carta dalla plastica, a firmare per buone cause e a dare elemosine ai più disgraziati di noi? Cominciare a capire che cosa vuol dire “valore” delle cose, del lavoro (proprio e degli altri) e del denaro può essere un buon inizio, ragionare sul rapporto fra diritti civili e disuguaglianze un buon proseguimento. Ancora meglio rendersi conto che il cittadino-consumatore in questo clima economico tende a diventare  prima o poi un sommerso e che i salvati, se esistono, sono pochissimi.

Altrimenti quello che resta ce lo dice Cecco Angiolieri alla fine del Duecento: “In questo mondo, chi non ha moneta/per forza è necessario che si ficchi/uno spiedo per lo corpo o che si ’mpicchi.” 

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