Gli avvenimenti di Washington, dove un presidente in via di lasciare il potere aizza la folla per invadere il centro e il simbolo della rappresentanza popolare, il parlamento, sono sotto gli occhi di tutti. Così come lo è la repressione che continua ad accanirsi a Hong Kong contro gli studenti e i giovani colpevoli di voler difendere gli angusti spazi di democrazia che hanno ereditato nel momento in cui la città è tornata sotto il controllo della Cina popolare.
In questo inizio di anno, tuttavia, per questa rubrica vorrei ricordare una persona del tutto sconosciuta in Italia e non solo, morta di Covid in Russia il 3 gennaio: si tratta di Michail Rogacev, storico e militante dei diritti umani, membro del direttivo dell’organizzazione Memorial, che ha permesso dai tempi di Gorbacev di conoscere la realtà della repressione sovietica nel Gulag e che adesso è sotto attacco da Putin per la sua azione a favore della conoscenza storica e dei diritti umani (il governo russo ha dichiarato Memorial una organizzazione «straniera», e quindi senza diritti, perché ha accettato finanziamenti provenienti dall’estero). Rogacev ha lavorato per anni a far conoscere la storia del Gulag nella repubblica del Komi, a ovest degli Urali, dove avevano trovato posto numerosi campi di lavoro e di prigionia negli anni ’30-’50. Tra il 1998 e il 2016 Rogacev ha pubblicato sessantamila note biografiche di cittadini russi e stranieri che hanno avuto la sventura di vivere la tragica esperienza di quei campi e, nella maggior parte, di morirvi perché fucilati o per le condizioni terribili di lavoro e di vita.
Sulla repressione politica nella Repubblica del Komi durante l’epoca sovietica Rogacev ha scritto una decina di volumi, e per far conoscere quel passato tragico non soltanto attraverso i documenti, organizzava ballate storiche e spettacoli teatrali dove drammatizzava l’esperienza dei suoi sfortunati concittadini e delle tante vittime anche di altri paesi. È grazie alla tenacia di uomini, storici, militanti come Rogacev che è possibile tenere viva la memoria della sopraffazione e della violenza patita in regimi che giustificavano quella pratica repressiva come «difesa del socialismo».