“Questo è tempo di costruttori”. Le parole estrapolate dal messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sono state identificate come il passaggio clou da molti commentatori politici, che vi hanno letto una sferzata: chi al popolo italiano perché ritrovi le energie che in altri momenti lo hanno fatto grande, chi al ceto politico che a livello nazionale e locale lo rappresenta e governa.
Una frase come quella del presidente attrae come una calamita anche chi si interessa di storia dentro il ping pong tra passato, presente, futuro. E la domanda è sempre la stessa che ci facciamo ogni volta che cerchiamo nel passato gli spunti per comprendere: cosa è che in altri momenti mise (o rimise) in moto oppure accompagnò la crescita? Attenzione, non si tratta di credere ancora alla favoletta della storia che si ripete, perché allora sarebbe tutto molto facile, basterebbe conoscere le cose avvenute in passato e agire di conseguenza. Possiamo, però, almeno individuare qualche costante e rifletterci sopra.
Ne scelgo una. Il decollo dell’economia è stato ogni volta accompagnato dalla crescita culturale.
Così avvenne ad esempio in Italia degli ultimi secoli del Medioevo quando furono proprio gli uomini d’affari a capire che per crescere c’era bisogno di gente istruita, di notai, scrivani, uomini di legge. Che per la ricostruzione politica e civile delle città ci volevano maestri, esperti di diritto e di amministrazione. Che era indispensabile saper leggere e scrivere anche per tenere i conti e per agire nel mondo. E che, prima di spostarli a fare pratica presso qualche magazzino o azienda di mercanti in qualche parte d’Europa, era necessario trasmettere ai propri figli una cultura che li preparasse in modo molto largo al commercio, all’amministrazione, alla conoscenza della legge, agli affari, alla politica.
In molte città il livello d’istruzione crebbe rapidamente e un fiorentino orgoglioso della propria come il cronista Giovanni Villani raccontò che 8000/10.000 tra bambini e bambine imparavano a leggere nelle scuole di Firenze..
Mentre l’economia cresceva il sapere progrediva su tutti i versanti. Gli studenti delle Università circolavano per l’Europa e in quella di Bologna chiamavano «ultramontani» i tedeschi, ungheresi, spagnoli, inglesi provenzali, catalani, francesi boemi, borgognoni, polacchi, normanni, scozzesi. Alcuni medici furono autorizzati a eseguire studi di anatomia sui cadaveri dei condannati a morte e si scrissero manuali di storia naturale, zoologia, aritmetica. Tra i trattati di agronomia, quello di Pier de’ Crescenzi venne tradotto in francese, tedesco, polacco, inglese: pubblicato a stampa nel 1471, soltanto in Francia ebbe quindici edizioni entro il 1540.
Un aneddoto ci aiuta a comprendere quanto prezioso si considerasse il sapere. Quando il giovane Matthäus Schwartz, tra il 1514 e il 1516, fu in Italia e sentì parlare di contabilità in partita doppia, solo con fatica riuscì a trovare qualcuno che glie la insegnasse. Alla fine ne venne istruito da Antonio Mirafior a Venezia, fondamentale piazza di affari per tutti i mercanti-banchieri tedeschi e il principale centro per l’insegnamento della contabilità. Tornato in Germania, ad Augusta, venne subito assunto dalla grande casa bancaria dei Fugger, i quali lo consideravano grande esperto. Due elementi emergono chiaramente da questa storia: da un lato il fatto che ancora a inizio Cinquecento gli italiani venivano considerati dei maestri nell’arte di tenere i libri di conto; dall’altro che avevano una scarsa tendenza a insegnare ciò che sapevano, perché se lo tenevano stretto come simbolo e strumento della loro superiorità sui mercanti-banchieri stranieri.