Dallo scatenamento globale dell’economia capitalistica, ossia soprattutto, diciamo, da dopo la seconda guerra mondiale, l’esistenza delle persone è fatta prevalentemente di relazioni commerciali. Comprare, vendere, chiedere un prestito, prendere in affitto o affittare, sono i gesti più comuni del quotidiano. L’investimento affettivo che le persone fanno in questi rapporti di scambio è grandissimo ed è cresciuto a dismisura col nuovo millennio. Spendere, come spendere, quando spendere, risparmiare sì o no, sono le scansioni più diffuse della vita della mente della maggior parte degli abitanti del pianeta terra. Si compra o si vende per mangiare, per sentirsi meglio, per previdenza in vista della vecchiaia, perché si vuol bene, perché si vuol male, per simpatia, per antipatia, per differenziarsi, per essere qualcuno e per non essere nessuno. Il denaro in tutto questo, i soldi, sono sempre più importanti, la novità però sta nel fatto che da qualche decennio il denaro da tangibile e sonante o frusciante tende a diventare invisibile: carte di credito e di debito, bancomat, e, infine, i più o meno malfamati Bitcoin (dal 2009), il denaro elettronico, generato, sembrerebbe, da un ticchettio della tastiera del computer di chiunque.
Il senso del denaro invisibile e il suo fascino stanno, come mille pubblicità proclamano, nella velocità e nella smaterializzazione dei pagamenti, ossia nella magia di un gesto che per mezzo di un rettangolino di plastica fa apparire e rende godibili oggetti, esseri viventi e servizi dotati di un valore economico, una pera, un vestito, una casa, un ombrello, un cane, una gallina, un frutteto, una pizza e il lavoro di chi ce la porta a casa. Vista poi la difficoltà o l’incapacità del potere politico di controllare i movimenti illegali dei soldi sonanti e fruscianti (pizzi, tangenti e mazzette), e invece l’almeno apparente e totale “tracciabilità” dei soldi invisibili, si è in effetti concluso che è meglio premiare chi fa uso di questi ultimi. La legalità pecuniaria sembra assicurata se si fa uso di bancomat e di carte di credito.
Nel caso dei soldi elettronici, i bitcoin, o criptovaluta, la magia del pagamento invisibile raggiunge l’acme trasformando il desiderio di sicurezza e l’aspirazione al benessere, la voglia di essere e sentirsi felici, nello stimolo ad apprendere i segreti di un incantesimo che, in assenza di moneta e finanche del rettangolo plastificato (della bacchetta magica), consente di investire e diventare ricchi soltanto grazie al movimento del mouse e alla digitazione di alcuni comandi (a un abracadabra, insomma). Benché da molte parti si venga messi in guardia nei confronti di truffe e truffatori che si volatilizzano col malloppo dopo aver promesso fiabeschi guadagni a chi tramuti i suoi soldi (effettivi) in soldi virtuali (eventuali), il giro d’affari del denaro invisibile cresce ogni giorno. Come resistere alla promessa di un’iniziazione alla stregoneria della finanza, all’apprendimento dei segreti di una forza, quella economica, che promette la fine della miseria e magari della morte?
La finanza virtuale, i soldi invisibili, il denaro intangibile hanno, come tutto, una storia. Oggi dimenticata eppure tanto reale da risuonare ancora oggi nella mente degli umani che, seppure ammoniti a sentirsi moderni e a spregiare il passato e tanto più l’oscuro medioevo, il medioevo ce l’hanno dentro anche se non lo sanno. E soprattutto il medioevo dell’economia.
E’ stato infatti nel medioevo, fra un re e l’altro, fra papi e imperatori, santi e cattedrali, che la moneta virtuale ha cominciato ad esistere con il nome di lettera di cambio. Un pezzo di carta che valeva come una somma di denaro e che avrebbe consentito al suo “portatore” di ottenerne la liquidazione in una valuta specifica. La lettera di cambio, come i titoli di credito, sin dal Trecento rendevano possibile il trasferimento nominale di somme di denaro: ma questo era possibile perché con il denaro che queste carte rappresentavano viaggiava anche la fiducia di cui godeva chi le emetteva e chi le portava con sé per poi cambiarle in moneta effettiva. Il valore del denaro poteva insomma diventare un’astrazione perché ci si fidava di chi assicurava che, al di là del pezzo di carta, esisteva una ricchezza reale fatta d’oro, d’argento, di beni di consumo, di cose. Questa fiducia era a volte ben riposta, altre volte no. Sin dalle origini la moneta virtuale poteva causare, e causava, a volte arricchimenti, a volte impoverimenti e fallimenti e, per dirla al modo odierno, “bolle” speculative di cui facevano le spese gli sprovveduti.
L’invenzione medievale del denaro virtuale dipendeva dall’esistenza di circuiti finanziari, di “compagnie” commerciali e bancarie che ne garantivano il valore. Questo denaro era insomma un denaro fiduciario e come tale conteneva un rischio e allo stesso tempo una promessa. Come quello di oggi.
Già nel medioevo i sacerdoti della finanza erano i custodi di misteri pericolosi. Benché sin da allora si sostenesse che bastava credere in questi misteri per poterli padroneggiare, la sapienza economica era e sarebbe rimasta di pochi, mentre molte ne sarebbero state le vittime fiduciose e consenzienti.