l prossimo anno la Formula 1 di automobilismo si svolgerà anche in Arabia Saudita. Non è il primo paese, e non sarà l’ultimo, in cui si svolgeranno grandi manifestazioni sportive di livello internazionale che catturano l’interesse e la passione di milioni di spettatori mentre avvengono quotidianamente violazioni dei diritti umani più elementari, ad esempio – ed è proprio il caso dell’Arabia Saudita – contro tutte le donne.
Quest’anno la Formula 1 aveva fatto una pubblica dichiarazione di «uguaglianza», lanciando la campagna “Corriamo come uno» per promuovere l’inclusione tra diverse razze, generi e sessualità nello sport”.
Peccato che proprio quest’anno l’agenzia della sicurezza statale dell’Arabia Saudita ha ribadito nel classificare il femminismo, l’omosessualità e l’ateismo come «idee estremiste» proibite nel loro paese e punibili con bastonature e prigione.
Per ironia del destino proprio le donne (e gli uomini) che hanno combattuto negli ultimi anni per permettere che anche alle donne venisse concesso in Arabia Saudita il diritto a guidare un’auto si trovano in prigione, e non avranno la possibilità di guardare correre le auto della Formula 1 (guidate tutte da maschi), nel loro paese. Lewis Hamilton, che nel Gran Premio di Imola aveva indossato una maglietta del Black LivesMatters e aveva affermato che “i diritti delle donne sono diritti umani”, ancora non ha rilasciato dichiarazioni sostenendo che deve informarsi meglio sul regime dell’Arabia Saudita prima di esprimere un giudizio.
Lo sport è da tempo in prima fila, e comunque è sempre più in mezzo, alle polemiche che riguardano i diritti, in tutto il mondo. Il ruolo dei cestisti americani, per esempio, o dei giocatori di football, nelle proteste scoppiate dopo l’uccisione di George Floyd sono state importantissime per accrescere e diffondere il movimento Black LivesMatter, e l’invito a votare durante queste elezioni è stato costante e produttivo. In Europa, e a livello internazionale, la questione è forse meno sentita. Ma con la crescita degli appuntamenti da svolgere in paesi come l’Arabia Saudita – che assicurano ricchi introiti ma si distinguono anche per la loro pervicace violazione dei diritti umani – sarebbe necessaria una più coordinata e intensa campagna degli atleti di tutte le discipline dello sport.