Può un brand trasformarsi in un’icona culturale? La risposta sta nell’equilibrio tra estetica, emozione e significato, elementi che rendono un marchio non solo riconoscibile, ma anche capace di lasciare un’impronta nella società. Questa domanda è stato il punto di partenza dell’analisi condotta da Francesco Buschi, Head of Strategy FutureBrand, dedicata a sondare l’importanza del marketing che, con il suo potere di influenzare l’immaginario collettivo attraverso storie che vanno oltre il prodotto, è una forma di cultura.
I brand, infatti, non si limitano a vendere oggetti o servizi, ma evocano emozioni, creano legami e, quando riescono a farlo in modo efficace, diventano icone culturali.
“Per iconicità – sottolinea Francesco Buschi – si intende un mix di estetica, emozione e significato che trasforma un marchio in un’entità memorabile e universale. Pensiamo a Coca-Cola, non una semplice bevanda, ma il simbolo di un’idea e di un tempo che attraversa generazioni.”
E aggiunge l’Head of Strategy di FutureBrand: “L’iconicità, però, non è solo un mezzo per connettere il pubblico al marchio, è anche un efficace strumento di protezione. In un mercato che copre ormai l’intero globo, i simboli iconici garantiscono identità e coerenza, rendendo il brand immediatamente riconoscibile in ogni angolo del mondo, anche il più remoto”.
E continua Buschi: “Una strategia che rafforza l’unicità della marca e la protegge dalla dispersione culturale e dall’appiattimento che spesso si accompagnano alla globalizzazione. Essere iconici, però, non può essere considerato un traguardo definitivo. Come ogni cosa, anche i brand evolvono e mutano; nel loro caso la sfida risiede soprattutto nel cambiare senza smarrire la propria anima lungo il percorso. Il rischio maggiore per i brand-icona è di scivolare nello stereotipo”.
Per ciò che concerne Coca-Cola – rimarca ancora Buschi – vediamo come la campagna “Every Coca Cola is welcome”, che ha stampato sulle lattine di una “limited edition” i loghi ridisegnati più o meno liberamente da alcuni rivenditori in giro per il mondo, abbia permesso di rompere con la rigidità della sua identità visiva, celebrando la vicinanza e la quotidianità che il marchio vive con il suo pubblico.
Continua ancora Buschi: “Un altro esempio efficace è il logo di Mulino Bianco, disegnato da Gio Rossi negli anni ’70 e sottoposto diverse volte a micro interventi adattativi, oggi include api e fiori, un redesign che ha trasformato la sua immagine bucolica in un messaggio più attuale e concreto sull’impegno dell’azienda in favore dell’ambiente”
E continua Buschi: “ Allo stesso modo, nella campagna “Save our Species” Lacoste ha collaborato con il WWF, sostituendo il suo coccodrillo con altri animali, per lanciare un messaggio a favore della salvaguardia di tutte le specie minacciate di estinzione.
“Questi loghi, pur fuori dai canoni visivi normati, hanno valorizzato il rapporto tra il brand e i consumatori, sottolineando quanto l’iconicità non sia solo una questione di estetica, ma anche e soprattutto di partecipazione e connessione emotiva”, commenta Buschi.
Andando nello specifico, un settore che conosce bene le sfide dell’iconicità è quello dell’automotive, in cui il cambiamento è una forte necessità. E’ stato soprattutto l’avvento dei veicoli elettrici a determinare la profonda trasformazione di molti marchi storici in atto.
Infatti, Renault, Volkswagen, Audi, Fiat e molti altri stanno cercando di adattare le loro identità a valori nuovi come, per esempio, la sostenibilità e l’innovazione. La sfida sta nel trovare un equilibrio tra il richiamo alla propria storia e la necessità di parlare a un pubblico contemporaneo, più attento ai valori ambientali e tecnologici.
Tuttavia, nessuno di queste aziende è ancora riuscita ad arrivare dove è giunto il colosso Tesla, fondato dal divisivo Elon Musk e che domina incontrastato sul mercato globale, cioè essere un’icona di un futuro “green”, tecnologico e aspirazionale.
In definitiva, per rinnovarsi e utilizzare l’iconicità in maniera strategica, i marchi devono avere ben chiaro quali sono gli elementi fondanti del loro immaginario e usarli in modo creativo, abbandonando ogni rigidità.
Questo significa condividere i propri simboli con le persone, modificarli o lasciare che vengano modificati quando necessario, per ritornare a essere sé stessi con maggiore forza.
“Gli esempi dimostrano che l’iconicità è un processo in divenire, tutto il contrario della staticità. La capacità di reinterpretare i propri simboli, preservandone i valori fondamentali, è ciò che consente ai brand di mantenere la propria rilevanza anche culturale, soprattutto in un mondo in piena trasformazione”, insiste ancora Buschi.
“Abbiamo prestato forse più attenzione alle regole di utilizzo dei loghi e delle identità visive dei brand di quanta ne abbiamo dedicata a tutelare i loro valori più intimi, quei valori che hanno il potere di farne delle icone”, conclude Buschi.
Questa ricerca condotta da Buschi e dai suoi collaboratori permette di capire che il brand non è qualcosa di statico ma una vera e propria icona culturale, e questo dovrebbe far “drizzare” le antenne alle aziende – dalle più piccole alle più grandi- per quanto riguarda la loro strategia di marketing per convincere i consumatori ad acquistare i loro prodotti e non quelli degli altri.