di Rock Reynolds
È un’immagine biblica, quella del fiume che rompe gli argini e sommerge il mondo circostante, con la sua forza salvifica di fertilizzante che dà la vita e la sua potenza divina di giudice implacabile della morale che, quella stessa vita, toglie. Sappiamo bene che l’America più tradizionale, quella che ci ha regalato pagine di letteratura epocale e canti di straordinaria intensità popolare, si è nutrita e continua a nutrirsi del racconto biblico.
Lo slogan fondante della nazione americana, “In God we trust”, non è poi tanto diverso dall’inquietante “Gott mit uns” tedesco, che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo: l’avvento e il crollo del regime nazista. L’America nella presenza forte di Dio al suo fianco crede; la Germania era certa che Dio stesse dalla sua parte. La vendetta biblica che l’ha quasi cancellata dalla storia parrebbe aver trasformato quella convinzione in mera illusione.
Gli Stati Uniti non sanno cosa sia l’illusione e, se potessero, bandirebbero il termine da ogni vocabolario. L’America – già, com’è possibile che uno stato che di quel continente è solo una piccola fetta ne rivendichi colloquialmente il nome? – continua a proiettare un’immagine di incrollabile fede nell’assenza di limiti per l’individuo. La gente comune ci crede davvero? La cultura è sempre la cartina di tornasole migliore.
Ecco dunque, che l’irruzione delle acque malsane di un fiume esondato tra le strade di una cittadina di provincia, guarda caso nel “profondo Sud”, è di per sé un preambolo perfetto. C’è qualcosa di insondabile nella potenza degli elementi e qualcosa di fortemente sinistro nell’incontenibilità di un’inondazione che porta con sé limo, detriti, devastazione e un sentore di morte in ciò che si trascina appresso che ha un valore letterario ancor più forte delle vere e proprie vittime di cui si fa inevitabilmente la conta.
Blackwater 1 – La Piena (Neri Pozza, traduzione di Elena Cantoni, pagg 256, euro 9,90) è il primo capitolo della saga, appunto, di “Blackwater”, in realtà della cittadina di Perdido, Alabama, profondo Sud (ancor più profondo nel 1919, anno in cui il racconto ha inizio), un nome che è tutto un programma. A concepire la saga è stato Michael McDowell, sceneggiatore di successo, celebrato da Stephen King come “miglior scrittore di paperback originali degli Stati Uniti” e scomparso prematuramente nel 1999. E più paperback dell’edizione di Neri Pozza non potrebbe essere, anche perché davvero il formato scelto sta in una tasca.
Ammetto di essermi accostato alla lettura del primo dei sei tomi che, con una mossa quanto meno insolita, l’editore Neri Pozza ha deciso di pubblicare a cadenza bisettimanale, con una certa diffidenza. Cerco di evitare di leggere saghe, anche se le dovute eccezioni ci sono: la “Saga dei Clifton” di Jeffery Archer e la “Saga di Poldark” di Winston Graham, per esempio, a loro volta ottimi romanzi storici.
Le mie perplessità, almeno per quanto attiene al capitolo iniziale, erano del tutto infondate. Blackwater 1 – La Piena, è un romanzo godibilissimo che scorre fluido come le acque dei due fiumi che attraversano quella cittadina dall’economia ruotante intorno a tre segherie: il Perdido, appunto, e il Blackwater.
Tutto parte da quella inondazione biblica e da ciò che Oscar Caskey, scapolone di una delle tre famiglie più benestanti di Perdido, aggirandosi per la città bordo di una barchetta condotta dal suo assistente di colore, scopre nella camera dell’albergo semisommerso: una giovane donna, forestiera, Elinor, che soccorre e accompagna a casa sua. Oscar non sa che l’irruzione di quella donna nel tran tran non esattamente tranquillo ma certamente consolidato di Perdido e della sua famiglia cambierà la storia del suo microcosmo. Il passato nebuloso di Elinor e la paura di Mary-Love, madre di Oscar e sostanziale capoclan, di vedersi scalzata dal suo ruolo accentueranno un conflitto inevitabile. Quel che è peggio, Elinor ha l’inusitata capacità di fare breccia nel cuore del prossimo. Le voci che iniziano a serpeggiare di stranezze nei suoi comportamenti debordanti nel campo del sovrannaturale velano il quadro complessivo di una bruma di mistero che certamente non guasta.
Non va dimenticato il contesto storico: nel 1919, il Sud segregato è ancora un paese mentalmente schiavista, malgrado l’istituto della schiavitù sia stato abolito per legge nel 1865. Sono, forse, il senso di colpa collettivo dei bianchi e la superstizione sincretica degli ex-schiavi ad aver accentuato la propensione al metafisico dei racconti orali americani e, di conseguenza, della narrativa popolare, soprattutto nel Sud. D’accordo, gli scritti di Flannery O’Connor e William Faulkner non si fanno notare per una presenza massiccia di folletti e spiritelli, ma le atmosfere gotiche nel romanzo sudista non mancano. Joe R. Lansdale ancor oggi ammicca con piacere a quelle suggestioni, per quanto prediliga costruirle indagando nel lato oscuro della psiche umana e pescandole in tutte le pieghe apparentemente insondabili dei comportamenti individuali.
Più che di fattucchiere e talismani, i suoi romanzi pullulano di creature mostruose che l’immaginario popolare ha demonizzato: aggressivi e velenosi mocassini d’acqua (immancabili nella letteratura del Dixie come nella sua natura e, in effetti, evocati anche nella saga di “Blackwater”), alligatori, pesci mutanti, inquietanti gatti selvatici. Poco importa, dunque, se tutta quell’aura metafisica è frutto dell’autosuggestione e della superstizione. D’altra parte, non v’è libro più spaventoso della Bibbia, ricco di sangue e violenza. Lo sanno bene i cantanti del blues del Delta, una terra confinante con l’Alabama, per i quali l’inondazione dell’Old Man River, ovvero del Mississippi, la rottura degli argini e il patto con il diavolo al fatidico crocicchio sono pane quotidiano. E quel patto faustiano non è forse figlio più o meno legittimo dei libri della Bibbia? Lo sa bene anche Bob Dylan, che non perde occasione per citarla in maniera più o meno diretta.
Il grande Johnny Cash, originario dell’Arkansas, che ha lembi facenti parte di quel Delta, soleva dire che una canzone può parlare soltanto di tre temi: Dio, amore e morte. In Blackwater 1 – La Piena, Dio e morte la fanno da padroni. L’amore fa timidamente capolino e si può immaginare, se non proprio sperare, che esca maggiormente allo scoperto nei capitoli successivi.
Si potrebbe obiettare che l’ovvietà del punto di partenza di questa saga la squalifichi: è quasi un canone assoluto della letteratura la comparsa di uno straniero che sconvolge la tranquillità di un ambiente in cui tutto è uguale a se stesso da sempre. È un canone classico: basti pensare alle opere di Shakespeare. Ma è un elemento di suspense inevitabile, in qualsiasi storia, comunque la si pensi. Johnny Cash parlava di tre temi e io mi sento di parlare di un’unica storia universale, declinabile secondo la sensibilità individuale dell’autore, ma comunque alla ricerca di un racconto appassionante, che sappia toccare le corde giuste. In Blackwater 1 – La Piena questo ingrediente è presente e fa ben sperare per il prosieguo della saga. E, a ben guardare le cose, una piccola novità c’è: solitamente a sconvolgere la quiete è un uomo, come il misterioso Shane ne Il cavaliere della valle solitaria. Protagonista della saga di “Blackwater” è Elinor Dammert, una donna. E che donna!