di Antonio Salvati
L’interessante libro di Romina Arena, Leggetevi e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole (Rubbettino 2020, pp. 196, 14 euro) non è solo l’ennesimo manuale di tecniche e metodi per imparare a fare qualcosa come il titolo potrebbe far intendere. L’autrice ci avverte che il volume scaturisce dalla sua esperienza di insegnante di scrittura creativa, educatrice alla lettura consapevole e formatrice all’animazione di laboratori di lettura. Il libro raccoglie riflessioni, esperienze sul campo, nonché nozioni pedagogiche e didattiche accumulate in tanti anni di impegno per un approccio trasversale, esperienziale ed ermeneutico alla letteratura. Arena crede «molto nell’efficacia del laboratorio di lettura come strumento di relazione non conflittuale, di confronto e per la creazione di uno spazio libero dal pregiudizio e dal giudizio. Lo trovo lo strumento più dinamico per avvicinare le generazioni e ridurre le distanze perché non ha partiti presi, né verità universali da rivelare; non dispone di soluzioni anticipate e preconfezionate, ma costruisce il cammino con le diversità che lo abitano». In un laboratorio di lettura, spiega Arena, «non si insegna a leggere né si fa sfoggio di particolari capacità intellettuali, ma si fa esperienza della lettura e condivisione della testimonianza. Non è quello che dico su quello che leggo a rendermi più o meno credibile, affascinante, affidabile, ma il modo in cui vivo e trasmetto la mia passione, il gusto che provo e il desiderio di condividerlo. Bisogna leggere seguendo la propria luce interiore».
Ciò che in realtà rende il volume pregevole, degno di essere di studiato (non solo dai cosiddetti addetti ai lavori quali insegnanti ed operatori culturali), è l’ambizione dell’autrice di costruire o ricostruire una relazione nuova con la letteratura, «guardare alla lettura come qualcosa in più di un piatto passatempo, recuperare il piacere delle storie e il gusto dell’esperienza, credere nella letteratura e nella lettura come strumenti di impegno civico, umano, morale, etico, pedagogico con cui la dialettica non sia scontro ma incontro, la diversità non limite ma prospettiva, il silenzio non mutismo ma spazio di accoglienza. Strumenti con i quali si possano trovare i semi fecondi da piantare e curare nel giardino della conoscenza, nel cuore e nella mente per costruirci il presente come esseri umani, cittadini e amanti migliori».
Alla letteratura viene solitamente data una connotazione intellettuale alta, una sorta di hortus conclusus (giardino chiuso) cui solo pochi eletti hanno accesso. Un cenacolo dove – direbbe Italo Calvino – si utilizza un oscuro linguaggio lontano dalle persone. Un linguaggio che Italo Calvino definì Antilingua, perché fondamentalmente artificiosa e artificiale alla quale si ricorre per darsi un tono. Inoltre, l’Antilingua, «è distante dall’essere comprensibile, scollata dall’uso comune che si fa delle parole. A chi pratica Antilingua non interessa il dialogo, ma il monologo, lo sterile esercizio della verbalità inaccessibile. Si crea così uno steccato difficilmente superabile che separa in maniera irriducibile chi parla da chi ascolta. Il problema è di comunicazione e di accessibilità». Arena giustamente si pone il problema di portare la letteratura tra la gente e «la letteratura è lì e non altrove che deve stare, tra la gente. Solo tra la gente. Deve esserle cibo, ristoro, domanda. Deve esserle sprone, pungolo, rinascita. Deve esserle esperienza, chiarore, riverbero. Deve essere desiderio, parola, cammino. E noi chiamati a essere rivoluzionari. Incendiari nella misura in cui questo fuoco ci brucia dentro. A costo di essere dei perdenti. In ciò che facciamo la letteratura è carne viva e non specchietto di autocompiacimento e la facciamo nostra allo scopo di renderla cosa di tutti, esperienza di tutti con la semplicità della colomba. La letteratura è un pane che va condiviso, altrimenti è solo una muffa all’angolo tra la parete e il soffitto».
Tutto decisamente giusto e condivisibile. Tuttavia resta la questione: come trasmettere la passione per la lettura e la letteratura? Ma prima di comprendere come essere bravi animatori e divulgatori di letteratura, bisogna divenire «lettori appassionati che mettano il proprio corpo, il proprio cuore e la propria mente al servizio di questa esperienza e che – soprattutto – alla fine di questa esperienza continuino a sentirla incompleta e incompiuta se la tengono solo per se stessi. Che la sentano invece portatrice di altra ricchezza e altra bellezza nella condivisione e nella moltiplicazione». Non serve imparare a leggere più libri, ma amare profondamente quelli che leggiamo, interrogandoci soffermandoci sulle parole che ci provocano e lasciare loro la libertà di farlo. Il problema non è imparare subito un metodo da applicare. Il metodo contiene tecniche ed informazioni indispensabili che sortiranno «effetto ed efficacia solo se avremo accettato di guardare e vedere in maniera differente, più accurata e acuta, mettendoci in ascolto e in relazione, facendoci attraversare da tutta la vita che ci scorre dentro e attorno».
Arena non ci fornisce una definizione di letteratura. Approfondisce il tema della letteratura come pedagogia e provocazione, come strumento che – attraverso l’inquietudine, la curiosità e l’esperienza – conduce a livelli sempre più profondi di conoscenza (interiore ed esteriore); della lettura come pratica che include l’esercizio dello sguardo, dell’ascolto e del silenzio. Non esistono regole per leggere, esiste però il modo in cui ci disponiamo alla lettura. Per Arena «tutto è narrazione ovunque ci sia una relazione, una domanda; ovunque io possa chiedermi cosa sta succedendo, cosa è successo, cosa succederà; ovunque possa chiedermi perché; ovunque possa chiedermi: e poi? La letteratura è intorno a noi, ma è anche dentro di noi. Si alimenta di tutto ciò che temiamo e nascondiamo; di tutto ciò che viviamo e amiamo. È un’accumulazione di eventi, di fatti, di volti, di memorie, di letture, di incontri, di fratture. È tutto quello che conserviamo e che non disperdiamo mai». Giustamente l’autrice osserva che da qualche parte questa accumulazione di esperienze resta, anche se non ne siamo consapevoli. Tutto quello che ci accade aumenta la nostra esperienza e alimenta anche il nostro subconscio, il luogo nel quale sedimenta quanto viviamo in superficie. «[…] nell’arco di una vita, – scriveva Ray Bradbury – ci riempiamo di suoni, visioni, odori, sapori, caratteri di persone, animali, paesaggi – eventi grandi o piccoli. Ci riempiamo d’impressioni ed esperienze e delle nostre reazioni nei loro confronti. Nel nostro subconscio non entrano solo i meri dati di fatto, ma i dati reattivi, il nostro muoverci incontro – il nostro allontanarci – dai fatti percepiti».
Nella poesia La fiera dei miracoli, Wisłava Szymborska ci dice che tutto è possibile, anche immaginare l’inimmaginabile. L’inimmaginabile è un criterio per comprendere la bellezza e la ricchezza della letteratura. L’inimmaginabile – spiega Arena – diviene un fatto concreto apriamo «gli occhi sulle cose semplici, sulle piccole, su quelle apparentemente insignificanti della nostra quotidianità e di cui non ci accorgiamo perché sono ovvie, perché fanno parte di una routine alla quale non facciamo più caso. Perché andiamo così di corsa da non concederci il tempo dell’osservazione e dello stare. Il tempo della scoperta e dello stupore». David Foster Wallace diceva che «è difficile notare quello che vedi tutti i giorni». L’inimmaginabile è accorgerci che i veri miracoli sono nelle minuzie; quando afferriamo il dettaglio che ci sfugge, che la bellezza sta in una mucca che bruca l’erba, nel frutto che nasce dal nocciolo. La bellezza sta nella natura, quindi nel creato e nell’operato.